L’ossigenoterapia viene utilizzata per correggere i quadri di insufficienza respiratoria acuta o cronica derivanti da patologie polmonari e extrapolmonari. Può essere utilizzata mediante:
Metodiche non invasive, che correggono l’ipossia,
Metodiche invasive, utili per correggere l’ipercapnia.
Un suo uso eccessivo può comportare dei danni sia a livello polmonare (con effetti infiammatori lesivi a livello cellulare), sia a livello extrapolmonare, con fenomeni di vasocostrizione, diminuzione della portata cardiaca e, nel neonato prematuro, fibroplasia retrolenticolare (patologia che colpisce le strutture oculari posteriori al cristallino, provocando la cecità).
I sistemi utilizzati per la somministrazione di Ossigeno sono di due tipi:
Sistemi a basso flusso:
Sondino naso-faringeo: è un sondino che si inserisce nella medesima maniera del sondino naso-gastrico che diffonde l’ossigeno al nasofaringe e all’orofaringe. Viene usato raramente, in quanto, è scarsamente tollerato dai pazienti e, se non correttamente posizionato, può provocare distensione gastrica,
Occhiali nasali: sono ben tollerati anche se non garantiscono un flusso di ossigeno costante, in quanto ciò dipende dal tipo di respiro (nasale o orale) del paziente. il flusso massimo è di circa 6 l/min. Se si utilizzano flussi superiori ai 4 l/min è necessarioumidificare l’aria per evitare l’essiccamento della mucosa nasale.
Maschere facciali semplici: permettono di fornire flussi di ossigeno compresi tra i 5 – 10 l/min. Sono poco tollerati dai pazienti dispnoici perché può dare la sensazione di soffocamento e costrizione. Un altro problema di questo tipo di maschera è quello di doverle rimuovere in caso di alimentazione o espettorazione del paziente,
Maschere facciali semplici con reservoir: permetteono l’erogazione di flussi di ossigeno di 8-15 l/min, con una FiO2 che può arrivare anche vicino al 100% (sistema non – rebreathing: vi è la presenza di una valvola unidirezionale che impedisce al gas già espirato di rientrare nella maschera).
Sistemi ad alto flusso:
Maschera di venturi o Ventimask: questa maschera sfrutta per erogare concentrazioni di O2 costanti l’effetto Venturi (l’O2 sotto pressione passa attraverso uno stretto orifizio oltre il quale determina una pressione sub-atmosferica che risucchia l’aria ambiente dentro il sistema). Variando la misura dell’orifizio ed il flusso la FiO2 può essere impostata a 24%, 28%, 31%,35%, 40%, 50%, 60% (il kit è fornito con ugelli di diversi colori ognuno dei quali corrisponde ad un certo flusso e ad una certa FiO2).
In caso di pazienti intubati o tracheostomizzati si usano i seguenti sistemi di Ossigenoterpia:
Tubo a “T”:circuito composto da un tubo corrugato in plastica e da un raccordo a T che viene posizionato sul tubo endotracheale o sulla cannula trahceostomica. A questo raccordo, va collegato da una parte la branca inspiratoria che deve essere umidificata e dall’altra la branca espiratoria, costituito da un tubo lungo circa 20 cm. Questa metodica viene utilizzata spesso durante lo svezzamento dalla ventilazione artificiale meccanica;
Portanaso: sistema di filtraggio e umidificazione da applicare al tubo endotracheale o alla cannula tracheostomica. Tramite un raccordo è possibile somministrare ossigeno;
Cupola tracheostomica: sistema simile ad una maschera tradizionale. Si differenzia da essa per la sua conformazione alla tracheotomia.
Durante la somministrazione di ossigeno, bisogna porre attenzione all’adeguata umidificazione della miscela gassosa inalata sia nei pazienti intubati o tracheostomizzati che, in caso di erogazione di ossigeno ad alti flussi, anche nei pazienti non intubati.
L’infermiere, durante l’ossigenoterapia, deve:
Valutare l’efficacia della terapia mediante il monitoraggio dei parametri vitali e neurologico, della meccanica respiratoria e con l’ausilio dell’emogasanalisi;
Controllare l’umidificazione verificando il corretto funzionamento dell’umidificatore, il livello dell’acqua nell’umidificatore, la temperatura, le condense, eliminando le stesse dal circuito del respiratore.
Prevenire le complicanze, quali tossicità: utilizzare l’ossigenoterapia a FiO2 possibilmente conosciute e non arbitrarie, in quanto elevate e continue % di ossigeno in persone con insufficienza respiratoria cronica in respiro spontaneo, possono provocare meccanismi di ipoventilazione a causa di un’eccessiva correzione dell’ipossia; atelettasie, mediante la collaborazione con il fisioterapista e l’educazione del paziente alla corretta esecuzione della fisioterapia respiratoria, alla modificazione della postura, alla stimolazione della tosse e all’esecuzione di aerosolterapia.
Per paracentesi (o peritoneocentesi) si intende la rimozione di liquido ascitico dalla cavità peritoneale per mezzo di una piccola incisione chirurgica o di una puntura praticata attraverso la parete addominale in condizioni di sterilità.
Cos'è e come si esegue la paracentesi per rimozione di liquido in addome
La paracentesi è una metodica diagnostico-terapeutica che consente il trattamento dei pazienti con grandi volumi di liquido ascitico (5-6 l) endoaddominale. Mentre sin dalle sue origini questa metodica era considerata il trattamento abituale per l’ascite, al giorno d’oggi la paracentesi è utilizzata soprattutto per il trattamento di paziente con asciti di importante entità resistenti alla terapia diuretica o in terapia con diuretici che causano gravi problemi alla persona e prima di altre procedure come studi di diagnostica per immagini, dialisi peritoneale o un intervento chirurgico.
La paracentesi è considerata anche una procedura diagnostica in quanto un campione di liquido ascitico può essere inviato al laboratorio di analisi per la conta delle cellule, la misura del contenuto di albumina e di proteine totali, gli esami colturali e altri test diagnostici.
Questa tecnica, associata all’infusione endovenosa di preparazioni di albumina povere di sali o di altri colloidi, è diventata un trattamento standard che determina effetti immediati per il paziente.
La somministrazione di albumina permette di correggere la riduzione del volume di sangue arterioso, diminuendo in questo modo l’incidenza di iponatriemia e delle disfunzioni renali ad essa associate.
È bene sottolineare come la paracentesi a scopo terapeutico determina una rimozione del liquido che è solo temporanea: l’ascite si riforma rapidamente e sono necessari ripetuti interventi.
La paracentesi, infine, può essere praticata sotto guida ecografica: tale metodica è particolarmente indicata per le persone ad alto rischio di sanguinamento (a causa di alterazioni della coagulazione) o per quei soggetti che in precedenza hanno subito interventi di chirurgia addominale che potrebbero aver dato luogo alla formazione di aderenze.
Assicurarsi che la persona abbia espresso il proprio consenso alla procedura
Preparare l’assistito informandolo adeguatamente circa la procedura e fornendo le opportune rassicurazioni
Il ricevere le informazioni migliora il grado di comprensione dell’assistito riguardo alla procedura e alle sue motivazioni
Invitare l’assistito a urinare subito prima della paracentesi
Avere la vescica vuota diminuisce il rischio di pungerla accidentalmente e migliora il benessere del paziente durante la procedura
Preparare il materiale sterile occorrente e gli appropriati sistemi di raccolta
La sterilità del materiale utilizzato è fondamentale per minimizzare il rischio di infezioni; l’avere tutto il materiale necessario a disposizione premette di realizzare velocemente la procedura
Fare sedere la persona sul bordo del letto, oppure su una sedia, con i piedi appoggiati su uno sgabello. Se la persona deve rimanere a letto, aiutarla ad assumere la posizione di Fowler
Assumere la posizione seduta determina lo spostamento del liquido ascitico verso la parete addominale, facilitando la puntura e il drenaggio del liquido
Permette di monitorare la pressione durante la procedura
Con una tecnica asettica, il medico introduce il trocar o l’ago attraverso una puntura praticata al di sotto dell’ombelico. Il trocar o l’ago sono connessi a un tubo di drenaggio, che ha l’altra estremità raccordata a un recipiente di raccolta
L’utilizzo di una tecnica sterile permette di minimizzare il rischio di infezioni. Se si utilizza questa sede, il sanguinamento nel sito di puntura è minimo. Il drenaggio del liquido all’interno del recipiente di raccolta avviene per gravità o per un moderato effetto sifone
Aiutare la persona a mantenere la posizione appropriata
Se l’assistito è debole o affaticato può incontrare difficoltà nel mantenere la posizione corretta
Durante tutta la procedura monitorare e registrare frequentemente la pressione arteriosa
Una diminuzione della pressione arteriosa può essere segno di un collasso circolatorio derivante dalla rimozione di liquidi dalla cavità peritoneale
Controllare attentamente l’assistito per rilevare eventuali segni di collasso circolatorio, pallore, aumento della frequenza cardiaca e riduzione della pressione arteriosa
L’ipovolemia può essere determinata dallo spostamento di liquidi dal torrente ematico verso la cavità peritoneale per rimpiazzare i liquidi drenati
Aiutare la persona ad assumere una posizione comoda
Se l’assistito è debole o affaticato può incontrare difficoltà nell’assumere autonomamente una posizione comoda
Registrare la quantità e la qualità del liquido drenato
La quantità di liquido drenato può essere molto variabile e la sua rimozione può avere conseguenze sul bilancio idrico e sul sistema vascolare; la quantità di liquido drenato deve essere inclusa nel calcolo di entrate e uscite. Le caratteristiche del liquido drenato (limpido o torbido, rosso o incolore) possono aiutare la valutazione diagnostica
Etichettare i campioni e inviarli al laboratorio
L’analisi del liquido peritoneale fa parte del percorso diagnostico
Controllare i parametri vitali: ogni 15 minuti per un’ora, ogni 30 minuti per due ore, ogni ora per le successive due e successivamente ogni 4 ore
Lo spostamento di liquidi conseguente alla paracentesi può determinare variazione dei parametri vitali (pressione arteriosa e frequenza cardiaca), in particolar modo se viene drenata una grossa quantità di liquidi
Una temperatura corporea elevata è segno di infezione
Rilevare un’eventuale ipovolemia, perdita di elettroliti, alterazione dello stato mentale ed encefalopatia
La rimozione di liquido peritoneale e il conseguente spostamento di liquidi può causare alterazioni del bilancio idroelettrolitico e dello stato cognitivo dell’assistito
In concomitanza con la rilevazione dei parametri vitali, controllare il sito della puntura per eventuali sanguinamenti e perdite di liquido
La perdita di liquidi dal sito di puntura può verificarsi a causa di variazioni della pressione addominale e, se non individuata tempestivamente, può causare complicanze. La perdita di liquidi può suggerire la presenza di infezioni, mentre sanguinamenti possono verificarsi in presenza di turbe della coagulazione conseguenti all’epatopatia
Insegnare all’assistito l’importanza di controllare la presenza di sanguinamenti o di rilevanti perdite di liquido dal sito di puntura, la necessità di evitare di sollevare pesi o di compiere sforzi e di cambiare posizioni lentamente
Se dopo la procedura l’assistito torna al domicilio, è necessario che la persona stessa o un familiare controllino il sito di puntura alla ricerca di sanguinamenti o di un’abnorme fuoriuscita di liquido. Per permettere una normale guarigione del sito di puntura la persona deve evitare di compiere sforzi e di sollevare pesi. Il rischio di ipovolemia determina la necessità di eseguire lentamente i cambi posturali
La Sindrome di Brugada è un'aritmia
cardiaca causata da una mutazione genetica (SCN5A, ma non
esclusivamente) presente sul cromosoma 3. È una malattia aritmogena a
trasmissione autosomica dominante caratterizzata da un tipico ECG (segno
di Brugada con sopraslivellamento del tratto ST in V1 e V3 e blocco di
branca destra) e da sincope e/o morte improvvisa.
Paradosso Brugada: Per scoprirla ci vuole un arresto cardiaco
Suscitano sempre grande interesse e curiosità le nuove scoperte, ma
anche un po' di timore per i vari aspetti ancora da definire e
approfondire.
Una di queste ha attirato particolarmente la mia attenzione sia per
la mancanza di criteri diagnostici univoci sia per le conoscenze ancora
incomplete sulla malattia.
Infine anche per la gravità degli effetti e per l'assenza di un
approccio farmacologico efficace che possa ridurre significativamente il
numero e la complessità stessa delle manifestazioni.
Per di più questa sindrome porta in sé uno straordinario paradosso:
il caso vuole che l'unico modo per essere allertati sulla sua presenza
sia l'avere un arresto cardiaco. Ma andiamo per ordine.
Sindrome di Brugada: Che cos'è
La Sindrome di Brugada fu descritta per la prima volta nel 1988 da autori italiani sul “Giornale Italiano di Cardiologia” e prende il nome dai fratelli Brugada che nel 1992 la introdussero come un'entità clinica distinta.
Solo nel 2002 sono stati definiti i criteri diagnostici e nel 2005
l'attenzione è stata spostata sulla stratificazione del rischio e sulle
terapie.
È una malattia aritmogena a trasmissione autosomica dominante caratterizzata da un tipico ECG (segno di Brugada con sopraslivellamento del tratto ST in V1 e V3 e blocco di branca destra) e da sincope e/o morte improvvisa.
In parole semplici è un'aritmia causata da una mutazione genetica (SCN5A, ma non esclusivamente) presente sul cromosoma 3.
Come si manifesta la Sindrome di Brugada
Questa anomalia è responsabile dell'alterazione dei canali del sodio
che regolano proprio il passaggio de sodio e del potassio nelle cellule
cardiache, indispensabili per il corretto funzionamento elettrico del cuore (ricordiamo
infatti che il muscolo cardiaco funziona in una “doppia modalità“:
elettrica e meccanica, dipendenti una dall'altra).
La Sindrome sembra essere responsabile di episodi di FV (fibrillazione ventricolare)
idiopatica in una percentuale variabile tra il 3 e il 60% dei casi. Si
manifesta più frequentemente in giovani maschi (con rapporto
maschi/femmine di 8:1) di età compresa tra 30 e 40 anni, ma è difficile
stabilire l'esatta prevalenza nella popolazione ed è altrettanto
difficile intervenire prontamente, poiché prettamente asintomatica e in
assenza di alterazioni strutturali del cuore.
Episodi di sincope e familiarità per morte cardiaca improvvisa in età
giovanile sono elementi indispensabili per una eventuale diagnosi e una
fondamentale prevenzione primaria. Infatti la sindrome di Brugada, come
già detto, si trasmette come carattere autosomico dominante, ciò
significa che una persona affetta presenta un rischio pari al 50% di
trasmettere la patologia ai propri figli, indipendentemente dal loro
sesso.
La diagnosi di Brugada
La diagnosi si basa su un'attenta valutazione (medica ovviamente)
dell'elettrocardiogramma, eseguito a riposo, in corso di attività fisica
e durante il riposo notturno.
Un Holter cardiaco potrebbe risultare utile. In alcuni casi l'ECG
appare normale e la sindrome risulta evidente solo dopo la
somministrazione di determinati farmaci (ajmalina, flecainide,
procainamide) che bloccano i canali del sodio.
In altri casi, in soggetti ad esempio colpiti da morte cardiaca
improvvisa fortunatamente sventata, è possibile eseguire una diagnosi
ancora più accurata mediante la ricerca di mutazioni nel gene SCN5A.
Trattamento terapeutico della Sindrome di Brugada
L'identificazione della mutazione permette di estendere l'analisi del
DNA ad altre persone della famiglia, con lo scopo di rilevare soggetti
asintomatici, ma portatori della Sindrome. Non esiste al momento una
terapia farmacologica sicuramente efficace per la prevenzione degli
episodi aritmici (è ancora oggi in discussione l'efficacia di sostanze
come la chinidina).
Alcuni gruppi di studi sostengono l'efficacia di un'ablazione
trans-catetere con radiofrequenza. Nei pazienti a più alto rischio con
un'anamnesi comprendente ECG positivo, familiarità ed episodi sincopali è
possibile impiantare un defibrillatore automatico
(ICD), un apparecchio simile ad un pacemaker in grado di riconoscere e
correggere eventuali episodi di fibrillazione ventricolare o aritmie
potenzialmente fatali.
Risulta dunque difficile l'approccio a questa strana sindrome, ma
l’informazione potrebbe essere fondamentale. Il solo sapere
dell’esistenza di una così bizzarra patologia può essere di aiuto per
una fondamentale prevenzione primaria, mera risorsa che potrebbe salvare
la vita.
Gli interventi infermieristici in area critica sono spesso molto complessi e devono essere eseguiti in maniera attenta e spesso in tempi rapidi. Il professionista della salute che lavora nell’ambito dell’emergenza/urgenza
deve coniugare efficienza e riduzione degli errori. Al centro della sua
azione assistenziale vi è un paziente in condizioni di acuzie che ha
bisogno di interventi nell’immediato.
L’area critica si caratterizza per complessità e rapidità di interventi atti a sostenere le funzioni vitali dell’individuo in condizioni cliniche precarie.
Il paziente critico presenta, infatti, condizioni tali da
comprometterne la sopravvivenza a breve-medio termine; esso si trova in
una situazione di instabilità clinica che necessita di alta
intensità di cura, di un monitoraggio continuo e dell’utilizzo di
procedure invasive che ne consentano la stabilizzazione.
È doveroso, a tal fine, mettere in atto risposte assistenziali intensive e continue con
tempestività. Tali criteri di azione si rendono necessari non solo per
garantire la sopravvivenza della persona, ma anche per evitare
l’insorgenza di complicanze tardive e, in questo modo, tendere alla
migliore qualità di vita residua possibile per il paziente.
Perciò l’infermiere di area critica deve
avere capacità decisionali ed essere in grado di agire tempestivamente,
in particolare nella rilevazione e valutazione dei parametri vitali e
nel loro monitoraggio nel tempo, in considerazione della possibile
rapida precipitazione degli stessi.
L’infermiere di area critica opera in diversi contesti, tra i quali
si inserisce quello del servizio di emergenza/urgenza. Innanzitutto, è
necessario specificare la differenza tra “emergenza” e “urgenza”:
con emergenza ci si riferisce a condizioni patologiche ad insorgenza improvvisa e di rapida evoluzione in cui le condizioni vitali del paziente sono talmente critiche da comprometterne la sopravvivenza e che, pertanto, necessitano di interventi repentini;
con urgenza ci si riferisce, invece, a condizioni patologiche
che, pur avendo insorgenza improvvisa, determinano un pericolo di vita
calcolato in ore, non in minuti, per le quali è comunque necessario intervenire nel minor tempo possibile.
Il setting dell’emergenza/urgenza
I setting si declinano in tre situazioni distinte: intraospedaliera, extraospedaliera e grandi emergenze. L’infermiere del S.E.U. 118 (sistema emergenza-urgenza) può lavorare sia in centrale operativa che sul mezzo di soccorso.
In centrale operativa l’infermiere, al momento della chiamata dell’utente, esegue un dispatch telefonico,
durante il quale, tramite la formulazione di domande standardizzate,
attribuisce un codice colore ed attiva il mezzo di soccorso; in questa
fase l’infermiere di centrale coordina tutti gli interventi attivi e i mezzi a disposizione. A livello territoriale l’infermiere di emergenza-urgenza può essere sia team leader di un’ambulanza non medicalizzata che lavorare in équipe in una con medico a bordo.
Ricevuta l’attivazione da parte del collega di centrale l’infermiere,
insieme ai componenti dell’équipe di soccorso, parte per raggiungere il
luogo dell’evento nel minor tempo possibile, compatibilmente con la
situazione del traffico stradale, le condizioni metereologiche e il
codice attribuito dal collega di centrale.
Giunto sul posto, il team leader, periodicamente in contatto
con la centrale operativa, inizia la valutazione, in primis
dell’ambiente, che deve essere in sicurezza, in secundis delle
condizioni cliniche della persona.
In particolare:
rileva i parametri vitali;
provvede al posizionamento di un accesso venoso;
in base ai sintomi riferiti dal paziente, mette in atto il protocollo stabilito.
L’infermiere team leader di un’ambulanza INDIA (ambulanza di
soccorso e rianimazione con Infermiere), oltre a coordinare i soccorsi
sul luogo dell’evento, effettua il triage attribuendo un codice colore
(verde, giallo, rosso e in alcune situazioni nero) e stabilisce la
destinazione dell’eventuale trasporto del paziente nel pronto soccorso
più idoneo, che non è sempre il più vicino, ma piuttosto quello della
struttura che, in base al livello DEA, è in grado di accogliere la
particolare tipologia di paziente. Il sistema del Triage
In riferimento al triage, occorre sottolineare che esso è stato istituito da D.P.R. 27 marzo 1992, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 17/05/1996, in cui si sancisce che tale funzione è
svolta da personale infermieristico adeguatamente formato e operante
secondo protocolli prestabiliti dal dirigente del servizio.
Gli obiettivi del Triage sono:
Assicurare immediata assistenza al malato che giunge in emergenza;
Indirizzare alla visita medica i pazienti secondo un codice di priorità;
Identificare le priorità e l'area più appropriata di trattamento;
Smistare i pazienti non urgenti;
Ridurre i tempi di attesa per la visita medica (anche se per i
pazienti meno gravi - codici bianchi - con il triage i tempi d'attesa
sarebbero più lunghi se confrontati a un accesso alla sala visita basato
sul semplice ordine d'arrivo in pronto soccorso);
Ridurre lo stato d'ansia;
Migliorare la qualità delle prestazioni professionali del personale in Pronto Soccorso;
Valutare periodicamente le condizioni dei pazienti in attesa;
Fornire informazioni sanitarie ai pazienti e ai loro familiari.
In situazioni di calamità (medicina delle catastrofi), un triage
preliminare viene effettuato direttamente dai primi soccorritori direttamente nel sito dell'evento.
Tale triage, detto "triage rapido", viene poi rivisto all'arrivo al
posto medico avanzato. La segnalazione del codice di gravità, in tali
situazioni, viene effettuata normalmente con delle specifiche Triage Tag,
dei braccialetti colorati e delle schede di accompagnamento che vengono
assegnate ai feriti in attesa di evacuazione sanitaria.
Nel definire un codice colore, sia in ambito intra che
extra-ospedaliero, l’infermiere non formula alcuna diagnosi, cosa che
resta di chiara pertinenza medica, ma sulla base della valutazione di
segni e sintomi stabilisce la priorità dell’assistenza. Ciò
garantisce un’equa distribuzione delle risorse disponibili, al fine di
assicurare al paziente più grave priorità di intervento e di ridurre il
sovraffollamento (o overcrowding) dei pronto soccorso.
L’infermiere che si occupa di soccorso extra-ospedaliero si
trova a dover fronteggiare molteplici situazioni di compromissione di
una o più funzioni vitali, come nel caso di arresto cardiocircolatorio,
di dolore toracico, di shock, ecc.
In queste situazioni i protocolli sono essenziali, perché
permettono una rapida gestione e l’individuazione delle procedure più
idonee atte a sostenere le funzioni vitali compromesse del paziente;
essi si basano spesso su flow-chart e sequenze di azioni, come nel caso
delle manovre di BLSD e nel protocollo PTC utilizzato per la gestione
del paziente politraumatizzato.
L’infermiere è continuamente formato ed aggiornato sulle evidenze
scientifiche. In particolare, alcuni protocolli, quali ad esempio BLSD,
BLSD Pediatrico e PTC, prevedono un retraining periodico.
L’infermiere segue, inoltre, corsi di formazione specifici e master
in area critica, che prevedono, tra le altre cose, l’utilizzo del
protocollo ALS (Advance Life Support), un’estensione del BLS (Basic Life Support). L’ALS permette il monitoraggio e la stabilizzazione del paziente tramite manovre di tipo invasivo,
come l’intubazione endotracheale o il confezionamento di una
tracheotomia. In particolari situazioni, in cui non è possibile reperire
un accesso venoso rapidamente a causa di un ambiente altamente insicuro
o per la presenza di paziente con grave shock, l’infermiere,
specificatamente ed adeguatamente formato, può posizionare un accesso intraosseo.
Questo tipo di soluzione si attua solo in situazioni che non
permettano altra via di somministrazione che garantisca l’infusione di
liquidi e farmaci in quantità simili a quelle somministrabili per via
endovenosa, come detto, in situazioni di emergenza e può essere tenuta
in situ per un tempo non superiore alle 24 ore.
Nel caso di paziente politraumatizzato, ad esempio in un
incidente stradale con dinamica maggiore, oltre a reperire un accesso
venoso e alla continua valutazione dei parametri vitali, è essenziale
una corretta immobilizzazione del paziente in modo da evitare, per
quanto possibile, danni aggiuntivi e permettere un sicuro trasporto
verso il pronto soccorso.
L’immobilizzazione prevede l’ausilio di particolari dispositivi
Il Ked (Kendrick Extrication Device) permette l’estricazione
della persona dall’abitacolo dell’autovettura; il collare cervicale,
insieme alla tavola spinale, immobilizzano la colonna vertebrale e non
vanno mai rimossi prima che il referto radiologico abbia dato responso
negativo riguardo la presenza di eventuali fratture vertebrali.
Nell’incidente con dinamica maggiore, inoltre, si rende necessario il trasporto in ospedale nella cosiddetta golden hour,
ovvero quel periodo di tempo entro un’ora dalla lesione traumatica, che
assicura la maggiore possibilità di sopravvivenza della persona.
Le patologie tempo-dipendenti, come ad esempio la sindrome coronarica acuta, sono correlate a diversi fattori:
rapidità del soccorso
precoce riconoscimento dei fattori di rischio
rapido riconoscimento dei sintomi
Nel caso l’infermiere si trovi in presenza di una persona con dolore
toracico, oltre a valutare il tempo di insorgenza e la durata del
dolore, considera la presenza di eventuali fattori di rischio per
patologia coronarica.
Quindi esegue un ECG a dodici derivazioni, che viene inviato per via
telematica ad una centrale di telecardiologia, dove viene refertato dal
medico cardiologo. Sulla base del referto cardiologico, in presenza di
situazioni in cui venga segnalato un tratto ST sopraslivellato, viene
attivato il cosiddetto “protocollo Hub”.
Il modello “Hub & Spoke” esprime una modalità di “produzione e distribuzione”
dell’assistenza ospedaliera secondo il principio delle reti integrate
che prevedendo la concentrazione della casistica più complessa e sistemi
produttivi altamente specialistici in un numero limitato di centri “ HUB (mozzo)”
che trattino volumi di attività tali da garantire la miglior qualità
dell’assistenza erogata ed il miglior utilizzo delle risorse
organizzative disponibili.
L’attività di tali centri è fortemente integrata attraverso connessioni funzionali con quella dei centri periferici “SPOKE (raggi)” che assicurano l’assistenza per la casistica residua.
Il protocollo Hub prevede la centralizzazione del paziente in
un centro con emodinamica interventistica attiva h24, bypassando
l’ingresso del paziente in pronto soccorso. Durante il trasporto, che
avviene con ambulanza medicalizzata, il paziente viene monitorato e
viene dotato di piastre del defibrillatore; inoltre viene eseguita
terapia secondo protocollo MANO, ovvero somministrazione di morfina, aspirina, nitrato e ossigeno, su prescrizione medica.
Nella situazione in cui il centro di emodinamica interventistica sia
molto distante, o per svariate ragioni non possa essere raggiunto, si
può centralizzare l'accesso al pronto soccorso di un ospedale che non
presenta emodinamica, definito ospedale Spoke. In questo caso,
vista l’impossibilita di effettuare una rivascolarizzazione del ramo
coronarico interessato e il posizionamento di uno stent coronarico, è
indicata la terapia fibrinolitica.
Si può affermare che il Servizio Emergenza Urgenza 118 funge da anello di congiunzione tra il domicilio della persona e il centro di emodinamica o l’ospedale SPOKE.
Il Triage intraospedaliero
Esso viene effettuato, allo sportello del pronto soccorso,
dall’infermiere appositamente formato che, sulla base dei segni e
sintomi:
assegna un codice colore di priorità al paziente;
gestisce le liste di attesa;
rivaluta continuamente i pazienti già “triagiati”.
Per ridurre il sovraffollamento dei pronto soccorso negli ultimi anni si stanno adottando dei protocolli ad esclusiva gestione infermieristica: il Fast Track
si attua per quella tipologia di pazienti con codici minori (codici
bianchi), che hanno una patologia di chiara pertinenza
monospecialistica, i quali, tramite questo percorso veloce a gestione
infermieristica, vengono mandati direttamente in consulenza
specialistica, senza necessità di effettuare la visita del medico di
pronto soccorso e senza dover tornare in pronto soccorso per la
dimissione; il See and Treat, invece, è un protocollo che prevede
la gestione ambulatoriale dei pazienti con problemi di salute di lieve
entità; in questo caso, gli infermieri specificatamente formati e in
relazione alle competenze, si occupano, autonomamente, di problematiche cliniche di natura minore, le quali non richiedono ulteriori accertamenti diagnostici e strumentali.
Maxiemergenza e Medicina delle Catastrofi
Per quel che concerne le maxiemergenze, la medicina delle grandi emergenze e delle catastrofi adotta altri tipi di protocolli per il triage:
protocollo START (Simple Triage And Rapid Treatment);
Entrambi permettono una più rapida valutazione del paziente.
La differenza di questi protocolli di triage rispetto a quello
tradizionale è che la finalità ultima è di garantire l’assistenza e le
cure alle vittime che, se soccorse con celerità, hanno una maggiore probabilità di sopravvivenza;
ciò implica che vanno invece destinati a cure secondarie quei pazienti
in gravissime condizioni, definiti codici blu, per i quali si valuta una
morte imminente.
In tali circostanze il triage viene effettuato in momenti distinti:
sul cantiere, ovvero il luogo dell’evento, in modo da stabilire una priorità di accesso al Posto Medico Avanzato (PMA);
all’ingresso del PMA, in modo da decidere secondo quale ordine evacuare il paziente verso gli ospedali limitrofi;
prima dell’evacuazione;
all’ingresso in ospedale;
nei percorsi intraospedalieri.
Il settore dell’emergenza territoriale è un ambito di assistenza in
forte espansione, il quale prevede un’organizzazione in cui l’infermiere
è figura centrale ed imprescindibile, sia che si trovi ad essere team
leader o in ambulanza medicalizzata, sia che operi nell’ambito
intraospedaliero.
Si stanno sempre più sviluppando protocolli a gestione totale ed
autonoma dell’infermiere, senza ingerenza medica, come i già citati Fast Track e See & Treat.
Ciò comporta, e sempre più comporterà, la necessità di una grande preparazione dell’infermiere, sia teorica che pratica, basata su:
aggiornamento continuo;
adesione a protocolli condivisi;
attitudini personali;
esperienza professionale.
Tutto questo nell’ottica di un livello sempre più elevato di assistenza basata sulla centralità della persona, seguendo criteri di:
In condizioni normali l’organismo umano produce acidi che sono frutto
del proprio metabolismo; naturalmente il processo metabolico interessa
tutte le sostanze che introduciamo dall’esterno, il traguardo finale è
rappresentato dalla produzione di tre sostanze acide che sono
l’ammoniaca, l’acqua e l’anidride carbonica, oltre alla generazione di
energia (ATP). Il corpo umano è dunque tutto impegnato a difendersi
dall’acidicità a dispetto dello stato basico, poiché normalmente produce
idrogenioni (H+ = acidi) e non ossidrilioni (OH- = basi).
L’idrogeno è il componente fondamentale delle cellule e lo troviamo
sotto forma di acqua, è quindi l’elemento primario in condizioni di
normalità fisiologica, mentre l’alcalinità la si riscontra solo in
condizioni patologiche.
Gli acidi passano nel sangue e gli eccessi vengono eliminati per
ristabilire l’equilibrio acido-base e permettere al sangue di conservare
la sua reazione neutra. Il pH del sangue lievemente alcalino (pH = 7.35
÷ 7.45) è la risultante di 3 sistemi, rappresentati dai sistemi tampone
acido-base, dai polmoni e dai reni.
Il sistema tampone acido-base è il più importante perché interviene
per primo, nell’arco di qualche secondo, e agisce correggendo
l’equazione bicarbonato-acido carbonico alterata. In seconda battuta
intervengono i polmoni che eliminano la CO2 in eccesso in pochi minuti
con la ventilazione.
E’ interessante notare che l’acidosi metabolica, costituita
dall’acido carbonico presente nel sangue e un po’ dovunque all’interno
del corpo umano (lo si ritrova nel plasma, nelle cellule, nelle ossa…)
si presenta sotto forma di liquido mentre la sua eliminazione si attua
sotto forma di gas (CO2 respiratoria).
Il rene è l’ultimo sistema tampone che interviene, ultimo in ordine
cronologico e non certo d’importanza, perché spetta proprio al rene il
compito di eliminare gli acidi ancora in circolo e il recupero dei
bicarbonati che vengono consumati rapidamente e si esaurirebbero in
pochi giorni senza il filtro renale: l’azione che il rene svolge è
determinante ma lenta: impiega almeno 8-12 ore per agire.
Ne deduciamo che l’organismo ha un gran bisogno di trattenere
bicarbonati e di eliminare acidi, anche perché l’equilibrio da mantenere
dipende dal rapporto fra i due, che deve essere di 20 a 1.
Se l’equazione 20/1 viene mantenuta, l’equilibrio acidobase rimarrà
inalterato: questo però avviene anche se i valori numerici fra
denominatore e numeratore cambiano, poiché il risultato della frazione
rimane costante. Ad esempio: 20 = 20/1 20 = 60/3. Ecco perché quando
leggiamo l’emogasanalisi ci dobbiamo preoccupare di leggere entrambi i
valori della pCO2 e dei bicarbonati e non il solo valore del pH che è il
risultato del rapporto numerico fra i due.
Emogasanalisi – Intervalli di riferimento:
Donna
Uomo
pH: 7,35
pH: 7,35
pO2: 80-90 mmHg
pO2: 80-90 mmHg
pCO2:35-45 mmHg
pCO2: 35-45 mmHg
HCO3-: 22-26mEq/L
HCO3-: 22-26 mEq/L
basi in eccesso: -2/+2
basi in eccesso: -2/+2
sat. O2: 94-100 %
sat.O2: 94-100 %
Il pH è influenzato da diversi fattori esterni, da non sottovalutare
la temperatura corporea e l’assunzione di alcuni farmaci; è necessario
dunque specificare se il paziente è febbrile poiché il valore del pH
sarà maggiorato (si parla di 0,0015 mmH in più per ogni grado di
temperatura corporea che superi i 37°C).
Generalmente l’organismo preserva la neutralità all’interno delle
cellule e mantiene il sangue a pH 7,4, cioè di 0,6 unità di pH sul
versante alcalino rispetto al pH neutro. Il pH può anche essere definito
come il logaritmo inverso della concentrazione degli ioni idrogeno: man
mano che l’acidità aumenta, il pH diminuisce. Il pH è sempre il
prodotto di due componenti: metabolica e respiratoria.
La pO2 è un indice della concentrazione inspiratoria di 02 misurata a
livello del mare in un adulto normale. Il contenuto arterioso in
ossigeno deve essere il più alto possibile per apportare la quantità di
ossigeno massimale al cuore e al cervello. Solitamente a ogni atto
inspiratorio si introduce nel polmone una concentrazione di 20,9% di O2,
e la pO2 misurata su questo valore deve risultare > 80 mmHg; se
risulta inferiore il paziente è ipossiemico.
Valori del pH compatibili con la vita sono approssimativamente compresi tra 6,8 e 7,8. ADULTO E BAMBINO
Normale 97 mm Hg
Range accettabile >80 mmHg;
Ipossiemia <80>80 mmHg;
70 anni di età >70 mmHg;
80 anni di età >60 mmHg;
90 anni di età >50 mmHg.
La pCO2 è un indice della pressione parziale di carico acido. La pCO2
varia in maniera lineare con la concentrazione plasmatica dell’acido
carbonico; ad un aumento dell’acido carbonico corrisponde quindi un
aumento della pCO2 e viceversa. Da che cosa deriva il valore della pCO2?
L’acido carbonico (H2CO3) lo troviamo in forma acquosa nel sangue,
nel plasma e nei liquidi extracellulari, durante la respirazione cede
acqua (H2O) e si trasforma in un gas volatile, l’anidride carbonica
(CO2) permettendo così la sua eliminazione attraverso la componente
respiratoria. La pCO2 è dunque l’espressione gassosa dell’acido
carbonico eliminato dall’organismo mediante la ventilazione polmonare.
Possiamo anche dire, con un percorso a ritroso, che l’acido carbonico
è la risultante della somma tra anidride carbonica e acqua, dove CO2 +
H2O <===> H2CO3.
I bicarbonati rappresentano il carico basico: ad 1,2 mEq/L di acido
devono corrispondere 24 mEq/L di bicarbonati perchè la bilancia
acido-base risulti in equilibrio. BE o l’Eccesso di Basi
Costituisce una misurazione del livello di acido metabolico che
normalmente è zero. Le basi del sangue (basi totali) sono circa 48
mmol/l in rapporto alla concentrazione di emoglobina. Le modificazioni
delle basi ematiche sono dette eccesso o deficit di basi. Quando diciamo
che un paziente ha un eccesso di basi di meno dieci “significa” che
questo paziente ha un eccesso di acido metabolico (acidosi) di 10 mEq/L.
L’eccesso di basi è utilizzato per calcolare la quantità di trattamento
richiesta per contrastare l’acidosi.
La saturazione è un indice indiretto dell’ossigenazione a livello
periferico. L’emoglobina ha una forte affinità per l’ossigeno a cui si
lega, una riduzione dell’affinità Hgb-O2 causata da vari fattori, limita
l’apporto di ossigeno ai tessuti e si esprimerà con un valore di Sat.
O2 inferiore a 94%.
Quadri clinici
L’acidosi e l’alcalosi sono condizioni fisiologiche che portano
rispettivamente ad acidemia (pH inferiore a 7,36) e alcalemia (pH
maggiore di 7,44) se non compensate. Acidosi respiratoria
In un quadro di insufficienza respiratoria si avrà un difetto di
ossigenazione del sangue arterioso associato al contempo ad un aumento
più o meno marcato della concentrazione di anidride carbonica (CO2) che è
il quadro clinico più frequente in emergenza. Il paziente con un
insufficienza respiratoria è un paziente ipossiemico, con dispnea, la
lettura dell’emogasanalisi rivela un aumento del carico acido con pCO2
alta; il pH diminuisce perché si va verso l’acidosi, i valori della pO2 e
della saturazione sono inferiori ai range accettabili di riferimento.
Le cause più comuni di acidosi respiratoria sono: shock,
sepsi,sovradosaggio di narcotici, broncopneumopatie croniche
ostruttive). Il trattamento richiesto è la iperossigenazione del
paziente con O2 ad alti flussi. Alcalosi respiratoria
Clinicamente significativa quando legata ad una ipoventilazione alveolare acuta da:
risposta all’ipossiemia arteriosa
risposta all’acidosi metabolica
disfunzione del sistema nervoso centrale.
Le ultime due cause sono raramente associate ad ipossiemia. Acidosi metabolica
Nell’acidosi metabolica, gli acidi metabolici devono essere
neutralizzati, metabolizzati o escreti per via renale. L’acidosi
metabolica è una condizione caratterizzata da un pH che è più acido in
rapporto alla pCO2 appropriata per quel punto specifico di pH. Acidemia metabolica
L’acidemia metabolica è la risultante dell’accumulo di acidi non
volatili o di perdita delle basi e l’insufficienza renale è la causa più
comune. Il paziente iperventila, come risposta normale alla diminuzione
del pH di origine metabolica. I valori emogasanalitici tipici di
acidemia metabolica durante la respirazione in aria ambiente sono:
pH < 7,30
pCO2 <40> 60 mmHg
Eccesso di basi > -10 mEq/l
Alcalosi metabolica
La risposta ventilatoria all’alcalosi metabolica è variabile e di
modesta entità. Di solito la pCO2 non sale oltre i 45 mm Hg in risposta
ad un alcalosi respiratoria primitiva.
Alcalemia metabolica
E’ il disturbo più comune di squilibrio acido-base nel paziente
critico, l’alcalemia metabolica deve essere corretta lentamente a meno
che il paziente sia già instabile, sonnolento, incosciente o
semicomatoso e gravemente debilitato. I valori emogasanalitici tipici
dell’alcalemia metabolica durante la respirazione in aria ambiente sono:
Fino a qualche anno fa nessuno avrebbe mai pensato a qualcosa di
diverso dall’intubazione orotracheale per ventilare in sicurezza un
paziente in arresto respiratorio. Fortunatamente gli anni passano, la
ricerca va avanti ed ecco che nascono i dispositivi sovraglottici. Di
dispositivi sopraglottici ne esistono diversi, dal combitube al tubo
laringeo, fino ad arrivare al più semplice: la Maschera Laringea.
È bene precisare fin da subito che i dispositivi sovraglottici non
necessitano di chissà quali capacità per il loro inserimento, sono
facili da usare, sicuri, e il più delle volte garantiscono una buona
protezione dall’inalazione accidentale di reflussi gastrico-esofagei
durante la ventilazione.
La Maschera Laringea, é composta da un tubo a doppio lume, uno per la
ventilazione ed uno per l’aspirazione. Il tubo é collegato ad una
cuffia di forma ellittica che va a posizionarsi sopra la laringe. La
particolare forma della cuffia della maschera laringea permette una
facile adesione all’aditus laringeo e ostruisce il passaggio dei
reflussi gastrici dall’esofago. Interessante particolarità della
Maschera Laringea é la possibilità di introdurla senza dover iper
estendere il capo del paziente, caratteristica molto utile che ne
permette l’uso anche sui sospetti traumi cervicali.
Ciò che però ci interessa particolarmente é che dato il suo semplice
utilizzo anche gli Infermieri con un minimo di addestramento, possono
farne uso. Questo rappresenta un fondamentale passo in avanti specie nel
soccorso extra-ospedaliero, dove la maggior parte degli equipaggi
lavorando in BLS, non hanno la possibilità di avvalersi di un medico
anestesista per l’intubazione orotracheale del paziente. In oltre tale
dispositivo potrà seguire il paziente anche nelle prime ore in PS
supportando una pressione positiva di 40 cmH2O nelle vie aeree,
garantendo cosí la possibilità di allaccio ai ventilatori meccanici.
Tecnica di Posizionamento:
Si sceglie la misura della Maschera Laringea in base al peso del
paziente con l’accortezza che in caso di dubbio é meglio scegliere la
misura maggiore diminuendo il volume di gonfiaggio.
Con la maschera completamente sgonfia si lubrifica la cuffia
applicando un gel sulla superficie superiore, quella non a contatto con
la laringe per intenderci.
L’insermiento viene effettuato guidando la maschera con un dito
contro il palato superiore del paziente, finché non si raggiunge la
parte posteriore del faringe.
Continuare l’inserimento fino a che non si incontra una certa resistenza.
Mantenendo in posizione il tubo gonfiare con una siringa la
cuffia della maschera, tastando la consistenza del cuffiaggio attraverso
l’apposito cuscinetto di verifica esterno.
Controllare il corretto posizionamento attraverso
l’auscultazione e l’osservazione dell’espansione toracica. Una piccola
perdita può essere normale, mentre una perdita importante é segno di un
mal posizionamento del dispositivo.
Una volta assicurato il corretto posizionamento, fissare con una benda o un cerotto il tubo. Collegare il pallone auto espandibile al tubo.
Da notare che esistono anche delle Maschere Laringee alternative, che
possono essere inserite attraverso un particolare introduttore, ed
alcune di queste permettono la veicolazione del tubo endotracheale per
una intubazione classica del paziente. Siamo di fronte ad un presidio
molto versatile, in grado di risolvere attraverso la sua semplicità e
velocità d’uso diverse situazioni. Persino gli ultimi protocolli ACLS ne consigliano l’utilizzo
anche per i medici nelle intubazioni difficili grazie alla sua
particolare efficienza.
Il drenaggio toracico è la tecnica utilizzata per drenare l’aria o i
liquidi che si trovano a seguito di una patologia nello spazio pleurico.
Si ricorre quindi al drenaggio toracico per la gestione di quelle
condizioni che determinano a livello della cavità pleurica un accumulo
di aria, acqua, sangue o altri fluidi. Le principali indicazioni per
l’inserimento del drenaggio toracico sono:
pneumotorace;
emotorace;
chilotorace;
empiema;
versamento pleurico di natura neoplastica.
Il sistema di drenaggio toracico prevede l’uso di un catetere unito
mediante un raccordo a un tubo collettore e collegato a un sistema di
evacuazione. Il sistema di evacuazione a sua volta può essere connesso a
un sistema di aspirazione.
Esistono diversi tipi di sistemi di drenaggio:
– drenaggi semplici costituiti da tubi di materiale plastico;
– drenaggi plastici mandarinati;
– drenaggi con trocar.
La scelta del tipo di drenaggio varia in funzione della patologia,
mentre le dimensioni del catetere variano in funzione del peso e
dell’età del paziente secondo lo schema seguente:
– da 8 a 12 Fr neonati e bambini;
– da 16 a 20 Fr bambini e giovani;
– da 24 a 32 Fr adulti;
– da 36 a 40 Fr adulti obesi.
I meccanismi sfruttati per il drenaggio dalla cavità pleurica sono:
– la pressione espiratoria positiva – quando la cavità pleurica contiene
aria o liquido, durante l’espirazione sviluppa una pressione positiva
che favorisce l’eliminazione dell’aria o del liquido dallo spazio
pleurico;
– la forza di gravità – posizionando il drenaggio più in basso rispetto
al sito di inserzione, si consente di espellere il liquido per gravità;
– l’aspirazione – caratteristica di alcuni sistemi di drenaggio.
Tra i sistemi di raccolta vanno segnalati:
la Valvola di Heimlich, uno dei dispositivi più semplici, che ha il
vantaggio di consentire al soggetto di muoversi, ma che di contro si
occlude facilmente;
il sistema a boccale singolo, nel quale il boccale svolge
contemporaneamente il ruolo di raccolta e di sistema antireflusso.
Questo sistema ha lo svantaggio di essere poco efficace quando il
livello di liquido sale; per evitare questo inconveniente è possibile
intercalare tra paziente e boccale principale un secondo boccale per la
raccolta (sistema a due boccali);
sistemi monouso che hanno il vantaggio di essere compatti e di poter essere collegati a un sistema di aspirazione.
Il punto di inserzione del tubo di drenaggio è preferibilmente
frontale o laterale e dipende dal materiale da evacuare: 2°-3° spazio
intercostale in caso di aria (pneumotorace), 5°-6° in caso di fluidi
(versamento pleurico). Tale tubo viene poi suturato alla cute, connesso
alla unità di raccolta e protetto da una medicazione sterile.
Per il posizionamento il soggetto viene disposto supino, semiseduto o
in decubito laterale con il braccio del lato da drenare in
retropulsione e abduzione, con la mano dietro il capo.
La tecnica di posizionamento potrà avvalersi di differenti alternative,
in genere la tecnica raccomandata consiste nei seguenti passaggi:
– incisione cutanea con una pinza di Kelly;
– dissezione dei piani sottostanti sino a raggiungere la pleura
parietale, che, una volta oltrepassata, permetterà di esplorare con la
punta di un dito la cavità pleurica per verificare l’assenza di aderenze
patologiche e il reale raggiungimento dello spazio pleurico.
Le principali complicanze del drenaggio toracico sono:
– sanguinamento endopleurico; – lesioni degli organi endotoracici; – lesione iatrogena di un nervo intercostale; – sovrainfezione del cavo pleurico; – mancato funzionamento del sistema per occlusione (coaguli, fibrina, ecc.); – edema polmonare omolaterale da riespansione.
In condizioni di urgenza il posizionamento di un drenaggio deve
essere eseguito con estrema rapidità: in tali casi occorre una corretta
valutazione della funzionalità respiratoria.
Si raccomanda quindi di:
ispezionare naso, occhi, bocca, collo e torace;
valutare il fremito vocale tattile (se vi è una riduzione);
effettuare una valutazione del torace (palpazione, percussione e auscultazione con fonendoscopio);
misurare frequenza, ritmo e profondità degli atti respiratori;
valutare la frequenza cardiaca e la qualità del polso;
osservare l’uso dei muscoli accessori, intercostali, la retrazione
del giugulo, l’entità e la simmetria delle escursioni toraciche, la
postura e lo stato della cute;
eseguire e interpretare gli esami ematici, emogasanalisi, esami colturali ed esami strumentali (Rx, TC);
non sottovalutare sintomi come irrequietezza, dispnea, cianosi,
tosse, dolore toracico ingravescente con i movimenti respiratori,
alterato stato di coscienza, ipotensione, tachipnea, tachicardia,
respiro superficiale, alitamento delle pinne nasali, retrazione degli
spazi intercostali, polso paradosso, distensione delle giugulari,
presenza di enfisema sottocutaneo, emitorace sporgente o disteso.
Occorre ricordare che l’assistenza infermieristica al soggetto con drenaggio toracico deve essere volta a: – mantenere il funzionamento corretto del sistema di drenaggio; – monitorare e collaborare col team in caso di complicanze dovute al confezionamento del drenaggio; – monitorare e collaborare col team riguardo all’insorgenza di possibili infezioni; – monitorare quantità e qualità dei fluidi raccolti secondo cadenze orarie programmate; – programmare cambi posturali orari al fine di garantire il comfort e il corretto funzionamento del drenaggio.
Per embolia polmonare si intende l’ostruzione di una o più arterie
polmonari a opera di un trombo (o più trombi) che si origina in qualche
parte del sistema venoso o nella parte destra del cuore, si stacca e
viene trasportato al polmone. L’EP è una condizione frequente, spesso
associata all’età avanzata, al decorso post-operatorio e a immobilità
prolungata. Può verificarsi anche in una persona apparentemente sana.
Gli eventi e condizioni che predispongono alla tromboflebite e all’EP
sono:
stasi venosa (prolungata immobilità, prolungati periodi in posizione seduta/in viaggio, vene varicose)
ipercoagulabilità (lesione, tumore, aumentata conta delle piastrine)
alcuni stati patologici (cardiopatia, trauma, decorso
post-operatorio e post-parto, diabete mellito, broncopneumopatia cronico
ostruttiva, precedente EP)
altre condizioni predisponenti (età avanzata, obesità, gravidanza, uso di contraccettivi orali).
Secondo le linee-guida l’EP può essere distinta in due gruppi:
embolia massiva: è caratterizzata da shock e/o
ipotensione (definita come pressione sistolica < 90 mmHg o calo di
pressione di 40 mmHg per più di 15 minuti non secondario ad aritmia di
nuova comparsa, ipovolemia o sepsi)
embolia non massiva: riguarda soggetti in
condizioni relativamente più stabili. Tra loro può essere identificato
un sottogruppo caratterizzato da segni ecocardiografici di ipocinesia
del ventricolo destro. Quest’ultimo gruppo viene individuato come
pazienti affetti da embolia polmonare submassiva.
Il risultato immediato di un evento tromboembolico, destinato a
un’area più o meno estesa del polmone, comporta conseguenze, sia da un
punto di vista emodinamico, sia respiratorio. Le conseguenze
emodinamiche sono un’aumentata resistenza vascolare polmonare dovuta a
riduzione dell’ampiezza del letto vascolare, che provoca un aumento
della pressione arteriosa polmonare e, conseguentemente, un aumento del
lavoro ventricolare destro per mantenere il flusso ematico polmonare.
Quando le richieste del lavoro del ventricolo destro eccedono la sua
capacità, si verifica un’insufficienza ventricolare destra. In tal caso
vi è una riduzione della gittata cardiaca seguita da una diminuzione
della pressione sistolica del sangue e da shock.
La sintomatologia può essere vaga e specifica in caso di episodi microembolici: il paziente si presenterà polipnoico, tachicardico, febbrile, affetto da senso di costrizione toracica.
In caso di embolia, tale da provocare una occlusione del letto
vascolare polmonare inferiore al 50%, alla tachipnea si aggiunge
costantemente la dispnea, accompagnata da dolore toracico. Il paziente
apparirà agitato, angosciato, affetto da tachicardia, talora sudato e
febbrile. Se l’occlusione interessa il tronco arterioso o uno dei suoi
rami principali, oppure più del 50% del letto vascolare, il quadro
sintomatologico è dominato dalla compromissione cardiaca, con comparsa
di shock ed, eventualmente, di manifestazioni sincopali. Il paziente
sarà gravemente angosciato, presenterà importante dolore retrosternale,
segni di stasi venosa, dispnea e cianosi. Quando il quadro occlusivo è
completo, la morte interviene nell’arco di pochi minuti.
Qualora in questa prima valutazione permanga il sospetto di EP
bisogna rapidamente avviare l’iter diagnostico, che sarà volto
all’esecuzione di:
Elettrocardiogramma: di fatto non diagnostico, sarà presente
tachicardia, segni di sovraccarico del ventricolo destro, importante per
escludere altre patologie (ad esempio infarto del miocardio).
Rx torace, che mostrerà aree di atelettasia parenchimale,
versamento pleurico, elevazione di emidiaframma, anche questo è utile
per escludere altre cause di dispnea.
Emogasanalisi arteriosa: ipossiemia e ipocapnia.
D-dimero: prodotti di degradazione della fibrina.
Ecocardiografia: utile per documentare la presenza di sovraccarico e disfunzione del ventricolo destro.
Scintigrafia polmonare: che permette di valutare le immagini sia della perfusione che della ventilazione polmonare.
Tomografia computerizzata spirale: è affidabile nella visualizzazione di EP lobari o centrali.
Angiografia polmonare: trattamento invasivo che viene utilizzato solo se i test non invasivi non sono diagnostici