giovedì 16 novembre 2017

Gli ElettroMedicali dal punto di vista infermieristico

GLI APPARECCHI ELETTROMEDICALI: classificazione utilizzo responsabilità
Premessa
L’impegno e l’investimento culturale di una associazione scientifica e infermieristica forense si concretizza anche con la promozione di approfondimentii in tema di sicurezza, al fine di:
-         accrescere un’ampia consapevolezza sull’importanza della salute e della sicurezza sul lavoro
-         promuovere il diritto dei lavoratori ad un ambiente sicuro e salubre
-         rispettare l’ambiente sicuro e salubre
Un ambiente sicuro e salubre deve essere rispettato a  diversi livelli, tra cui Governo - Datori di LavoroLavoratori che devono integrare il proprio ruolo e le proprie competenze attraverso l’adozione di un sistema di diritti, responsabilità e doveri ben definiti dove la prevenzione deve assumere un ruolo prioritario con l’utilizzo di tutti i mezzi disponibili per comprendere  il concetto di rischio e come può essere prevenuto o controllato. Da una parte accrescere promuovere rispettare, dall’altra integrare assumere comprendere.
La parola chiave è quindi sia in un senso che nell’altro: INTEGRARE
I numeri a volte confondono o non sono esaustivi, ma nel campo della sicurezza sul lavoro indicano con sufficiente autorevolezza il ventaglio delle probabilità che gli addetti possano essere interessati da un evento infortunistico. Significativo è anche il numero dei deceduti sul lavoro e la forbice tra uomini e donne, dove le donne in sanità sono ancora numericamente ed intellettualmente rilevanti, perché se così non fosse non si comprenderebbe il fatto che si espongano meno degli uomini. Poi si possono fare altre considerazioni che qui non è il momento di proporre. E’ però indubbio che nel campo della sicurezza e della salute negli ambienti di lavoro, il ruolo del lavoratore è assolutamente centrale o non marginale.
L’adeguatezza del tema in approfondimento sulla giornata odierna può essere meglio sostenuta verificando cosa intendiamo per RISCHIO e PERICOLO e se sia applicabile per evitarli o ridurli il decreto legislativo 626/94
Definito che il rischio può essere inteso come Probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente (ART. 2 D.LGS. 81/08) e definito che il pericolo può essere inteso come Proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni (ART. 2 D.LGS. 81/08), la corrispondenza tra la teoria e la realtà è meglio apprezzabile dalla lettura di una breve rassegna stampa che vede coinvolti sia gli operatori che gli utenti, sia l’elettromedicale che la tecnologia, sia il dovere di comportamento che responsabilità professionale civile e penale.
Gli articoli appena riassunti attestano che gli ambienti ad uso medico determinano un significativo aumento dei fattori di rischio, e dobbiamo in questo contesto evidenziare, ricordare e riflettere sul fatto che  i pzt che entrano in contatto fisico o elettrico con gli e.m. hanno di solito precarie condizioni di salute, diminuite capacità di reazione e sono quindi più vulnerabili ai pericoli, che ricordo essere la proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni (ART. 2 D.LGS. 81/08)
Cerchiamo insieme di sbrogliare la matassa.
Relazione
Le strumentazioni in ambito sanitario utilizzate per diagnosi, terapia e riabilitazione, possono essere genericamente indicate con il termine apparecchi elettromedicali che presentano, e questa è una prima distinzione, un raggio d’azione ampio e diversificato nel principio di funzionamento, nell’obiettivo da raggiungere, nella circostanza di utilizzoFissiamo bene questi punti nodali: quando ricorriamo ad un e.m. dovremo tener sempre in considerazione ed essere consapevoli del
principio di funzionamento
obiettivo da raggiungere
circostanza di utilizzo
Le apparecchiature elettromedicali possono essere diagnostiche e terapeutiche.
Il ricorso all’utilizzo degli elettromedicali è esponenziale perché lo sviluppo della scienza e della tecnologia, integrandosi, han permesso una maggiore conoscenza delle malattie e delle tecniche di diagnosi.
Il ricorso al loro massiccio utilizzo è sostenuto sia dal miglioramento delle loro funzioni sia per la loro capacità di essere impiegati in ambiti appena poco tempo fa impensabili. L’impiego è inoltre favorito:
-         per le dimensioni dei contesti sociali dai quali consegue una richiesta qualificata di assistenza e prestazioni sanitarie;
-         per l’efficienza, l’efficacia, l’affidabilità, la sicurezza delle tecniche produttive;  
I cittadini utenti sono certamente edotti sul progresso delle tecniche di diagnosi e terapeutiche e sono i primi a sostenere il ricorso al miglior utilizzo di un e.m.
Quanto sopra non può però prescindere da un punto di equilibrio tra il ruolo insostituibile della componente umana nel ricorso alle biotecnologie e nell’utilizzo degli elettromedicali. E’ evidente che un sanitario deve essere all’altezza dell’em che sta impiegando e che l’e.m. deve essere tecnologicamente adeguato alla prestazione che deve garantire. Non si può raggiungere nessuna delle due evidenze senza il punto di equilibrio prima richiamato. Un esempio calzante per analogia potrebbe essere quello del cardiochirurgo di fama mondiale che per operare necessita di un ambiente sanificato a regola d’arte, e che il lavoro della miglior impresa di sanificazione può essere vanificato dalla incompetenza del chirurgo di turno. Allo stesso modo possiamo essere infermieri preparati, esperti, rispettosi  ma se non riusciamo a cogliere apparenti insignificanti criticità o a lavorare in equipe, la preparazione resta fine a se stessa.
Possiamo individuare il punto di equilibrio nell’impiego favorito in maniera esponenziale con la:
-         Miglior conoscenza delle funzione degli apparecchi e massimo profitto di rendimento nelle più idonee condizioni di sicurezza a garanzia della professionalità degli operatori e dell’erogazione di corrette prestazioni ai pazienti
-         Promozione dell’informazione e della formazione sull’utilizzo congruo delle apparecchiature per prevenire il malfunzionamento, i guasti, l’imperizia, l’imprudenza, la negligenza che possono causare danni alla salute di tutti
-         Capacità di utilizzo consapevole e informato della tecnologia e della tecnica
Il concorso degli elementi richiamati
può
deve
potrebbe
dovrebbe
garantire sicurezza all’operatore e incolumità al paziente.
La professionalità e responsabilità sono strettamente correlate al possesso di conoscenze scientifiche e teoriche e abilità tecniche  e manuali.
r quanto sopra, cercherò di affrontare una analisi dei termini che interessano da vicino gli operatori che lavorano con gli e.m., tra i quali termini
IDENTIFICAZIONE
CORRETTO UTILIZZO
TECNOLOGIE
RISCHIO
PERICOLO
RESPONSABILITÀ
DIRITTI-DOVERI
LEGISLAZIONE
Abbiamo già individuato le due definizioni principali di elettromedicali, “Le strumentazioni in ambito sanitario utilizzate per Diagnosi, Terapia e Riabilitazione, possono essere indicate con il termine Apparecchi Elettromedicali” oppure “indichiamo un apparecchio elettrico che trova applicazione in ambito medico sanitario”.
In funzione sicurezza sul lavoro, è necessario richiamare l’attenzione sul fatto che negli ospedali possono anche essere utilizzati e.m. in combinazione con altri e.m. o apparecchi non elettromedicali. Un esempio è rappresentato dal carrello per le endoscopie, a sua volta composto da una fonte di luce, un processore di immagine, un video registratore, un monitor… che ovviamente devono essere compatibili nel loro complesso.
Dalla definizione generica dobbiamo necessariamente passare alla definizione tecnica che discerne dalla normativa italiana ed europea, per la quale si attribuisce per e.m. un “Apparecchio elettrico munito di non più di una connessione alla rete di alimentazione destinato alla diagnosi al trattamento alla sorveglianza del paziente sotto la supervisione di personale”
Tale definizione non è però ancora sufficiente ed esaustiva. Oltre ad essere munito di connessione elettrica, “l’apparecchio elettrico deve entrare in contatto fisico o elettrico col paziente e/o trasferire energia verso o dal paziente e/o rilevare un determinato trasferimento di energia verso o dal paziente”
Possiamo quindi al momento sintetizzare che un elettromedicale:
·        trova applicazione in ambito medico sanitario
·        munito di non più di una connessione
·        entra in contatto fisico o elettrico col paziente
·        trasferisce energia verso o dal paziente
·        rileva un determinato trasferimento di energia verso o dal paziente
La normativa Cei indica che un apparecchio e.m. deve essere munito di non più di una connessione, da intendersi quale collegamento con cavo elettrico tra l’e.m. e la sorgente di energia che ne permette il funzionamento.
A seconda dell’impianto elettrico di cui è dotato un ambiente di lavoro dedicato ad uso medico, non in tutti gli ambienti di lavoro medico sanitario è prevista la possibilità di effettuare una connessione elettrica in quanto precluso dalla normativa CEI 64-8/7 l’utilizzo degli e.m.
Brevemente, accenniamo che gli ambienti di lavoro vengono classificati in tre gruppi
Gruppo 0 : Locali nei quali non si possono utilizzare apparecchi elettromedicali con parti applicate
Gruppo 1: Locali nei quali si possono utilizzare apparecchi elettromedicali con parti applicate solo esternamente al corpo del paziente o introdotte invasivamente entro qualsiasi parte del corpo ad eccezione della zona cardiaca
Gruppo 2: Locali nei quali si possono utilizzare apparecchi elettromedicali con parti applicate destinate anche a interventi intracardiaci e a operazioni chirurgiche
In questi locali viene individuata una particolare zona, definita dalla Norma “zona paziente“, che delimita il volume all’interno del quale il paziente può venire a contatto con masse o masse estranee pericolose. La classificazione del locale e l’individuazione della zona paziente deve essere frutto della collaborazione tra progettista e direttore sanitario. All’interno della zona paziente gli accorgimenti da adottare per la sicurezza del paziente sono più restrittivi che all’esterno perciò si rende necessario stabilire l’effettiva posizione che possono assumere il paziente o le apparecchiature che possono entrare in contatto con il paziente
La Normativa Italia CEI 62-5 e la Normativa Europea CEI EN 60601-1 indica che …L’apparecchio elettrico deve entrare in contatto fisico o elettrico col paziente…
Possiamo definire una parte applicata …complesso delle parti dell’elettromedicale che entrano in contatto con il paziente in trattamento o portate in contatto con esso durante l’utilizzo…
E’ ovviamente preclusa l’adeguata funzione diagnostica e di cura in assenza di contatto fisico non occasionale, mentre possiamo asserire che un e.m. che entra in contatto con un pzt è potenzialmente in grado di provocare maggiori danni rispetto ad un contatto occasionale. Intendiamo come danni principalmente le ustioni e le folgorazioni. Sulle folgorazioni, in sintesi la corrente elettrica che fluisce sul corpo umano può arrecare drammatiche conseguenze.
Detto questo, cerchiamo di definire quali siano le parti applicate, che possono essere autonomamente rilevate in qualsiasi momento in quanto ogni e.m. deve essere corredato di una scheda tecnica.
Sono parti applicate
·        piastre  defibrillatore
·        elettrodi elettrocardiografo
·        sonde ecografo
·        elettrodi elettrobisturi
·        set tubi pompa infusione
Quanto si ipotizza che l’e.m. “e/o trasferire energia verso o dal paziente e/o rilevare un determinato trasferimento di energia…” per trasferimento di energia si intende un passaggio di energia tra e.m. e assistito…, e possiamo indicare energia elettrica (elettrobisturi), magnetica (risonanza magnetica), termica (termografia), ottica (raggio laser), mentre rilevare un determinato trasferimento di energia è riferito agli e.m. che misurano energia che interagisce tra una fonte energetica e l’assistito, quale spirometro (misura il flusso dell’aria che il pzt riceve da un ventilatore polmonare), amplificatore di brillanza (misura la quantità di raggi che hanno attraversato il pzt), gammacamera (misura la quantità di radiazioni gamma emessi dal pzt a cui è stato somministrato un farmaco radioattivo).
Abbiamo visto che il raggio d’azione degli e.m. è vasto importante e diversificato. Sempre tenendo ben a mente il fattore sicurezza, gli e.m. vengono classificati per il grado di protezione contro i rischi che si possono affrontare. Ne consegue una precisa distinzione in classi e tipi.
Gli e.m. si suddividono in CLASSI per definire le protezioni contro i contatti diretti e indiretti.
Gli e.m. si suddividono in TIPI per definire il grado di protezione contro i pericoli elettrici dovuti alle correnti di dispersione.
La valutazione del rischio
La protezione dei lavoratori contro i rischi durante il lavoro e la valutazione di una serie di problematiche in materia di salute e sicurezza nell’ambiente di servizio, devono essere perseguite in ogni ambito. non può esserci una politica della sicurezza senza che il
1) fine aziendale e assistenziale,
2) il progetto di cura,
3) il sistema di gestione della sicurezza sul lavoro
 siano attuati al fine di assicurare anche il raggiungimento degli obiettivi della tutela della salute anche dei lavoratori. Anche la salute degli operatori non ha prezzo.
In tal senso, l’opportunità di dedicare risorse ed energie alla contrattazione decentrata e alla formazione dei rappresentanti per la sicurezza deve essere colta per
•      Definire e documentare la politica, gli obiettivi e gli impegni da essa stabiliti per la sicurezza;
•      Assicurare che tale politica venga compresa, attuata e sostenuta a tutti i livelli aziendali;
•      Verificare il conseguimento degli obiettivi e fissare le relative azioni correttive
Ancora ricordiamo che un adeguato sistema di gestione della sicurezza sul lavoro deve riflettere un impegno globale dall’alta direzione fino agli operatori.
Domanda: E’ sempre possibile durante un incidente occupazionale evitare di assegnare la responsabilità dell’evento ad esempio, a prestazioni professionali conseguite e portate al termine al di fuori dei parametri di sicurezza?
Domanda: E sempre possibile assegnare a qualcuno la responsabilità di danni conseguenti all’esposizione dei lavoratori che utilizzano elettromedicali?
Resta in capo al datore di lavoro la responsabilità derivante dall’obbligo di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori (Art. 18 d.lgs 81/08)
Ma allo stesso tempo e con maggior significato non possiam dimenticarci dell’ Art. 20 d.lgs 81/08 …ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni…
Quando muore un assistito perché manca un riduttore non possiamo scaricarci ne la COSCIENZA e ne la RESPONSABILITÀ perché l’ambiente di lavoro deve essere vissuto e non subito.
Abbiamo visto che è altresì prevista la consultazione obbligatoria dei lavoratori stessi o dei loro rappresentanti e, parallelamente, il loro diritto a partecipare alla soluzione delle problematiche riguardanti la sicurezza suoi luoghi di lavoro
Nello specifico dell’argomento odierno, parlare di verifiche periodiche di sicurezza elettrica per valutare la conformità dell’ambiente di lavoro e degli e.m. ad una specifica norma, equivale a valutare il livello di rischio elettrico associato ad una apparecchiatura funzionante ed utilizzata tutti i giorni da operatori sanitari su pazienti.
Concludendo, la riduzione del rischio ad un livello accettabile, come per le verifiche, è ottenibile secondo due possibili percorsi:
1)    il primo riguarda interventi di tipo sostitutivo di parti di apparecchiature che hanno perso nel tempo le loro caratteristiche meccaniche ed elettriche. In questo caso l’intervento di ripristino viene considerato come un intervento di manutenzione correttiva su guasto, volto a riportare l’apparecchiatura nello stato di sicurezza iniziale.
2) il secondo riguarda interventi che comportano modifiche al progetto iniziale dell’apparecchiatura in quanto valutato carente rispetto allo stato dell’arte
Da un punto di vista economico, nella maggior parte dei casi, considerando anche i tempi di intervento e di fermo macchina, non risulta essere assolutamente conveniente intervenire.
LA FORMAZIONE DEL PERSONALE OSPEDALIERO ED IL MANUALE D’USO
La “messa a norma” o meglio “la riduzione del rischio ad un livello accettabile”, da sola non basta a garantire il conseguimento di risultati soddisfacenti e potrebbe addirittura essere causa di sprechi.
Un esempio evidente è quello delle porte antincendio: la norma prevede che esse siano realizzate, ma se poi vengono ostruite da pacchi o chiuse con catena e lucchetto, ci si trova di fronte ad un caso nel quale la semplice osservanza della norma tecnica è insufficiente.
Un ulteriore esempio più consono alla materia in esame, consiste nel fatto che il personale infermieristico potrebbe prendere l’abitudine di agire affidandosi ai sistemi d’allarme incorporati negli apparecchi, invece di prestare una certa attenzione alle azioni che sono in corso. Qualora si debbano usare apparecchi non dotati di allarmi, è molto probabile che si compiano degli errori.
Deve essere un preciso interesse degli operatori l’Informazione e la formazione dei lavoratori per i quali in questa materia competono precisi diritti, doveri e quindi precise responsabilità.

La defibrillazione: responsabilità e criticità infermieristiche




La defibrillazione è una pratica terapeutica che utilizza una scarica controllata di corrente elettrica allo scopo di correggere anomalie del ritmo cardiaco che ingenerino una funzionalità emodinamica non soddisfacente ai fini dell’ossigenazione tissutale del paziente.

Quando si verifica un arresto cardiaco, il cuore smette di battere. Può smettere di battere a causa di una malattia o di un trauma evidente, o anche arrestare inaspettatamente per una serie di motivi. Quando questo accade si parla di arresto cardiaco improvviso; Secondo l’American Heart Association, il danno cerebrale inizia dopo 4-6 minuti e la morte può verificarsi entro alcuni minuti se non si è defibrillati.
Esistono vari disturbi del ritmo e si distinguono interpretando un ECG:
In caso di de-sincronizzazione atriale avremo una fibrillazione atriale con l’assenza dell’onda P
ecg-fibrillazione-atriale
In caso di una tachiaritmia sopra-ventricolare (sopra il fascio di His) con attività atriale sincronizzata e regolare con frequenza elevata fra 240-300 bpm avremo un flutter atriale
ecg-flutter-atriale
In caso di una tachicardia sopra-ventricolare da rientro nodale (con onda P retro-condotta) avremo un ritmo elevato parossistico fra 150 e 180 bpm
ecg-tachicardia-sopra-ventricolare
In caso di una tachicardia ventricolare con una frequenza di 3 o più battiti di origine ventricolare troviamo un onda ventricolare allargata
ecg-tachicardia-ventricolare
In caso di fibrillazione ventricolare avremo una aritmia cardiaca rapidissima, caotica, che provoca contrazioni non coordinate del muscolo cardiaco dei ventricoli nel cuore. Il risultato è che la gittata cardiaca cessa completamente. La fibrillazione ventricolare è uno dei quattro tipi di arresto cardiaco (fibrillazione ventricolare, tachicardia ventricolare senza polso, asistolia, attività elettrica senza polso)
ecg-fibrillazione-ventricolare
Gli infermieri possono intervenire? A quali responsabilità incorrono?
La sopravvivenza in caso di arresto cardiaco dipende dalla realizzazione della corretta sequenza di una serie di interventi. La metafora, coniata dall’American Heart Association “Catena della Sopravvivenza” esprime, in modo sintetico e facilmente memorizzabile, l’approccio universalmente riconosciuto sottolineando l’importanza della sequenza e della precocità degli interventi salvavita. La catena della sopravvivenza è costituita da 4 anelli concatenati tra loro: la mancata attuazione di una delle fasi porta inevitabilmente all’interruzione della catena riducendo in modo drastico le possibilità di portare a termine con esito positivo il soccorso.
1° anello = ALLARME PRECOCE: attivazione precoce del sistema di emergenza (118)
2° anello = RCP PRECOCE: inizio precoce delle procedure di Rianimazione Cardio Polmonare
3° anello = DEFIBRILLAZIONE PRECOCE: utilizzo precoce del DAE
4° anello = ALS PRECOCE: tempestiva applicazione delle procedure di soccorso avanzato (ALS: advanced life support).
L’abolizione del D.P.R. 225/74 (meglio conosciuto come Mansionario) consente di fatto un’autonomia e una responsabilità maggiori all’attività dell’infermiere e permette di porre le basi perché essa diventi una professione a tutti gli effetti. Allo stato attuale, benché il profilo di tale professione non sia stato ancora del tutto delineato, esso si basa sostanzialmente su tre criteri:
  • Il codice deontologico che risale al maggio 1978.1
  • Il regolamento concernente l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell’infermiere dettato dal decreto n. 739 del 14/9/1994.2
  • La definizione degli ambiti operativi, direttamente derivante dalle materie e dagli argomenti trattati nel programma di Laurea in Scienze Infermieristiche (decreto 2/12/1991).
In Italia è stata approvata una Legge dello Stato, la Legge n. 120/2001 (“legge Monteleone” dal nome del suo primo firmatario), grazie alla quale sia gli infermieri sia il personale non sanitario potranno effettuare la defibrillazione elettrica utilizzando i Defibrillatori Semiautomatici Esterni dopo opportuno corso di addestramento.
Questa legge rappresenta un’innovazione di assoluto rilievo che pone l’Italia e, in particolare, gli infermieri italiani in prima linea nella lotta all’arresto cardiaco intra- ed extraospedaliero.
Gli aspetti medico-legali prevedono che un infermiere o, addirittura un laico, che abbia effettuato un corso di formazione (abbia, cioè, maturato i crediti formativi) sulle manovre di rianimazione cardiopolmonare e sulla defibrillazione elettrica è a tutti gli effetti autorizzato a intervenire attivamente in caso di arresto cardiaco.
Gli aspetti tecnici sono stati notevolmente semplificati dal Defibrillatore semi Automatico Esterno (DAE) che rappresenta uno strumento di facile e sicuro utilizzo dopo un breve addestramento.
Il DAE è in grado di determinare automaticamente, attraverso uno o più elettrocardiogrammi ripetuti nel tempo, a seconda del modello del dispositivo, se il paziente è stato colpito da arresto cardiaco. Solamente se il paziente si trova in questa condizione, il dispositivo si predispone per erogare la scarica elettrica selezionando il livello di energia necessario. Infatti, l’utente che utilizza il defibrillatore non ha in alcun modo la possibilità di erogare uno shock al cuore del paziente se il dispositivo non lo ritiene necessario. Semplice da utilizzare, occorre solamente applicare gli elettrodi sul petto del paziente e seguire le indicazioni della guida vocale presente all’interno del defibrillatore stesso.
Sotto il profilo penale si è discusso ampiamente del tema dell’esercizio abusivo della professione sanitaria, di cui all’articolo 348 del Codice Penale, correlato nella fattispecie all’utilizzo da parte di non medici di un’apparecchiatura elettromedicale.
Per quel che attiene agli infermieri, si poteva ritenere la questione superata sulla base di un’interpretazione evolutiva delle norme in merito, giacché appare evidente la riconducibilità ad una legittimazione dell’utilizzo del defibrillatore, nell’ambito di protocolli di rianimazione avanzata (quali potrebbero essere, per citarne due largamente accreditati, l’ALS o l’ACLS), da un’attenta lettura dell’articolo 10 del Decreto del Presidente della Repubblica del 27 marzo 1992, secondo il quale l’infermiere, nello svolgimento del servizio di emergenza, è autorizzato a mettere in atto “manovre atte a salvaguardare le funzioni vitali, previste dai protocolli decisi dal medico responsabile del servizio”.
Questo passaggio appare decisamente esplicativo e chiarificatore per quanto concerne la possibilità per l’infermiere di praticare non solo la defibrillazione, ma anche tutte quelle manovre, anche invasive, che consentono la stabilizzazione del paziente (o ne impediscono addirittura la morte) e il suo trasporto verso una struttura sanitaria adeguata al singolo caso clinico.
Da aggiungere che alcune correnti di giuristi desumono l’inappellabilità allo “Stato di Necessità” di cui all’articolo 54 C.P., poiché esso consta della sopravvenienza del tutto imprevedibile di una condizione che, per la sua gravità, rende lecite azioni altrimenti illecite al fine di salvaguardare beni primari (quale è la vita) messi in pericolo da tali pericolose contingenze. Il fatto stesso, appunto, di collocare un DAE in un contesto o scenario, vuole significare che in tale scenario è prevedibile (e questo annulla di fatto la condizione di sussistenza giuridica dello “Stato di Necessità” di cui sopra) il verificarsi di un arresto cardiocircolatorio. Per tale motivo non ha rilevanza lo “Stato di Necessità”, ma addirittura in un simile contesto di prevedibilità dell’evento dannoso, chi abbia a disposizione un DAE e lo sappia usare, assume una posizione di garanzia nei confronti di chi tale evento lo possa subire.
Questo implica peraltro che il soggetto che utilizza la macchina in un caso di arresto cardiaco potrà rispondere, ai sensi dell’articolo 582 del C.P., di eventuali lesioni o decessi legati ad un improprio o scorretto utilizzo del DAE e delle manovre rianimatorie ad esso collegate.
In pratica, qualora sia presente un DAE e si è abilitati ad usarlo, si ha il dovere di intervenire, proprio per la posizione di garanzia che occupa il personale sanitario. Dunque, come abbiamo visto, l’utilizzo di un’apparecchiatura elettromedicale per la defibrillazione precoce ingenera una serie di responsabilità e di dinamiche non solo cliniche, ma anche medico-legali, per far fronte alle quali è necessaria la padronanza della materia che solo una corretta preparazione, formazione e aggiornamento possono garantire.

Gestione del paziente con trauma grave


Il trauma grave è il risultato di un evento in grado di causare lesioni mono o multi-distrettuali (politrauma) tali da delineare un rischio immediato o potenziale per la sopravvivenza del paziente. La corretta gestione del trauma grave, dunque, è determinante sia dal punto di vista degli outcome del paziente (meno disabilità) sia dal punto di vista della spesa sanitaria.

Trauma grave: Prima causa di morte per i giovani in Italia


Il trauma è una lesione prodotta nell'organismo da un qualsiasi agente esterno (incidenti, violenze, armi, ecc.) capace di azione improvvisa, rapida e violenta (Enciclopedia Treccani).
In Italia tra i 15 e i 24 anni (con 1785 morti all’anno) la principale causa di morte sono gli incidenti stradali sia per i maschi (34%) sia per le femmine (25%). La seconda causa più frequente è il suicidio, con il 14% del totale tra i maschi e il 10% tra le femmine. Nel caso dei maschi è piuttosto alto il numero di morti per omicidio: 37 casi pari al 3%. Nella fascia di età tra 25 e 44 anni le principali cause di morte per i maschi restano gli incidenti stradali e da trasporto in generale (14%) seguiti dal suicidio (12%) per le femmine la percentuale di morte per trauma è minore e prevale invece il tumore al seno (Fonte ISTAT 2015).
Il trauma in Italia è quindi la prima causa di morte per i giovani. Da questo ne consegue che il trattamento competente di questo tipo di condizione clinica è determinante sia dal punto di vista degli outcome (meno disabilità) sia dal punto di vista della spesa sanitaria.
Gli assi sui quali si può intervenire sono tre in base ai picchi della mortalità in seguito ad un trauma:
  • il primo picco di mortalità avviene immediatamente (secondi o pochi minuti dal trauma), perché causa lesioni non compatibili con la vita. Queste morti sono riducibili solo con misure preventive del trauma. La patente a punti, l’utilizzo di casco e cintura, i limiti di alcolemia, la sicurezza sui luoghi di lavoro hanno ridotto la mortalità per incidenti di una quota considerevole.
  • Il secondo picco avviene da pochi minuti ad alcune ore, perché la persona può avere danni potenzialmente letali come lesioni emorragiche o neurologiche, che possono essere controllate con un trattamento tempestivo. È qui che entra in gioco la competenza e formazione dei professionisti impiegati nel soccorso. Questo periodo si chiama golden hour ed è il periodo dove il paziente richiede un intervento tempestivo e mirato per ridurre la mortalità e migliorare gli outcome.
  • Il terzo picco avviene a giorni o settimane dal trauma a causa di sepsi, complicanze tardive, sindrome da scompenso multiorgano. Questa mortalità si può ridurre applicando tutte le conoscenze mediche più moderne per garantire una gestione del trauma di qualità elevata anche in ambiente ospedaliero.
La letteratura individua alcuni fattori di aggravamento o morte in un trauma, che sono:
  • Ipossia e ipercapnia per ostruzione vie aeree o ipoventilazione
  • Ipoperfusione cerebrale da ipovolemia o ipotensione
  • Diagnosi inaccurata
  • Gestione iniziale impropria,
  • Mancato trasferimento a centri specializzati.
Come si può intuire per tutti questi fattori contano moltissimo la preparazione e le competenze del team di soccorso extra ospedaliero, perché possono agire su ognuno di questi punti migliorando quindi il soccorso alla persona traumatizzata.

L’approccio da adottare in caso di soccorso ad un trauma

Esistono due principali modelli di riferimento riconosciuti a livello mondiale e sono il Prehospital Trauma Care (PTC) e l’Advanced Trauma Life Support (ATLS).
Il modello del PTC nasce dall’esigenza di sviluppare una metodica di approccio e trattamento del paziente traumatizzato in fase preospedaliera, basata sulle migliori evidenze disponibili e adatta alla realtà italiana, nella quale l’intervento è spesso assicurato da personale con competenze disomogenee (basti pensare che ogni Regione ha il soccorso extra ospedaliero organizzato in modo diverso). Il modello ATLS è più adatto a realtà americane, dove le cause di trauma sono differenti (basti pensare alle armi da fuoco).
Chi si occupa di soccorso sanitario extra ospedaliero dovrà quindi avere una formazione sul trauma di tipo avanzato. Questi modelli di trattamento possono essere appresi grazie ad appositi corsi che trattano in modo intensivo, con molte esercitazioni e casi pratici, la corretta gestione del trauma.
Questi corsi sono gli stessi per medici e infermieri in quanto il metodo prevede un progressivo aumento delle competenze richieste per il trattamento di ogni condizione in modo che ognuno possa fornire il massimo del trattamento che è in grado di erogare.
L’approccio che questi metodi consigliano è il cosiddetto ABCDE, che è un acronimo per indicare:
  • A = Airways, cervical spine and oxygen - Vie aeree, rachide cervicale e ossigenoterapia
  • B = Breathing – Respirazione
  • C = Circulation – Circolazione e controllo emorragie arteriose
  • D = Disability = Problemi neurologici
  • E = Exposure – Esposizione del paziente e successiva protezione termica
Seguendo questo tipo di approccio si possono non solo riconoscere le situazioni pericolose per la vita del paziente, ma anche trattarle nel miglior modo possibile in base alle nostre competenze.
Il team di soccorso dovrebbe ovviamente verificare all’inizio di ogni turno tutta l’attrezzatura presente e il corretto funzionamento (check list) e in caso di dubbi dovrebbe provare i presidi che vengono utilizzati poco, in modo da mantenere una certa manualità.
È utile anche fare un briefing preparatorio mentre ci si reca sul posto dell’evento per suddividere i compiti e preparare le attrezzature in modo che non si perda tempo e che ognuno sappia il ruolo al quale è assegnato (ad esempio il soccorritore 1 mantiene la testa in asse, il soccorritore 2 si occupa della sicurezza della scena e della comunicazione con la centrale operativa, il medico si occupa della gestione delle vie aeree e l’infermiere delle infusioni e monitoraggio).

Trauma grave, l’intervento della squadra di soccorso

Prima di approcciarsi ad un paziente con trauma di qualsiasi natura è bene assicurarsi di operare in sicurezza sulla scena dell’evento traumatico. Oltre ai pericoli evidenti (crolli, incendi, paziente incarcerato che richiede soccorso tecnico dei vigili del fuoco), bisogna prestare attenzione anche ai pericoli a cui si pensa meno, come il monossido di carbonio in caso di stufe, oppure l’aggressore ancora presente sulla scena o il traffico stradale. In tutti questi casi prima di agire bisogna mettere in sicurezza la scena e, se non è possibile farlo, andranno allertati gli enti competenti (polizia, vigili del fuoco, ecc).
Quando la scena è sicura e permette l’avvicinamento dei soccorritori è utile fare il cosiddetto quick look (rapida occhiata), che serve a capire già in fase di avvicinamento a cosa si va in contro e come si dovranno posizionare i vari componenti del team. Ad esempio:
  • Ci sono uno o più persone coinvolte?
  • Si vedono macchie di sangue che indicano una grande emorragia?
  • Ci sono altri pericoli sulla scena come vetri o carburante?
L’approccio ad un paziente traumatizzato prevede due fasi: la prima si chiama valutazione primaria (primary survey) e la seconda fase è la valutazione secondaria (secondary survey).
La valutazione primaria va fatta a tutti i pazienti traumatizzati e permette di esaminare il paziente in modo accurato e veloce per ottenere alcuni dati che ci fanno capire se il paziente è stabile oppure no.
Oltre al riconoscimento della stabilità o instabilità del paziente questa fase ci permette di trattare le situazioni che mettono in pericolo la vita del paziente e risolverle, anche temporaneamente in attesa di arrivare al trauma center. Se non è possibile stabilizzare il paziente allora si dovrebbe andare all’ospedale più vicino dove sia possibile farlo.
La valutazione secondaria si fa solo se il soggetto è risultato stabile nella valutazione primaria, perché permette di approfondire meglio lo stato del paziente e le sue condizioni anche potenzialmente non letali, medicare ferite e immobilizzare gli altri, scegliere come destinazione l’ospedale più appropriato, anche se più distante.

Scoop and Run oppure Stay and Play?

Queste due filosofie storicamente contrapposte per la gestione di un trauma extra ospedaliero significano “caricare il paziente e correre in ospedale” oppure “restare sulla scena e intervenire con manovre avanzate per stabilizzare il paziente?”
Chiaramente non c’è una risposta univoca, ma bisogna considerare diversi fattori: un team in grado di gestire un trauma in modo avanzato può investire alcuni minuti sulla scena dell’evento per poter stabilizzare il paziente con manovre salvavita il cui ritardo comporterebbe un peggioramento del paziente.
Oppure un paziente incastrato in un’auto impone ai soccorritori di praticare lo stay and play in attesa che venga liberato. Ben diverso è il caso in cui i soccorritori si trovino di fronte ad una emorragia interna inarrestabile: in questo caso l’unica possibilità per la persona è arrivare in sala operatoria nel più breve tempo possibile.
Ultimamente la letteratura ha fuso queste due filosofie in una unica: Run and Play, ovvero “eseguo manovre sul paziente mentre vado in ospedale, senza perdere tempo sulla scena”. In questo caso anche le condizioni del paziente e l’esperienza del team sono determinanti per la decisione dell’approccio.

Primary survey

La valutazione primaria consiste nel valutare e trattare il paziente secondo lo schema ABCDE. È importante non passare alla valutazione secondaria se non si è terminato la primaria e se il paziente non è stabile. Ogni volta che il paziente peggiora bisogna ricominciare con la valutazione primaria e quindi si riparte dalla lettera A anche se ci si trova a metà della sequenza.
Grazie alla valutazione primaria si ottengono alcuni parametri fisiologici che sono importanti per capire se il paziente è stabile o meno: segni di PNX (turgore vene giugulari, asimmetria del torace, enfisema, non ventilazione di un polmone, trachea non in asse), frequenza respiratoria, saturazione di ossigeno, frequenza cardiaca, prima stima di una pressione arteriosa sistolica (sopra o sotto 80 mmHg), presenza di emorragie incontrollabili e livello di coscienza.
Se questi valori sono alterati e gli interventi di soccorso non li riportano nei range normali allora il paziente non è stabile ed è necessario portarlo al più presto all’ospedale più vicino od organizzare un rendez vous con un’équipe in grado di stabilizzare il paziente.
Valutare il paziente e raccogliere questi dati permette anche di riconoscere condizioni critiche per poterle trattare, sempre in base al proprio livello di competenze.

A - Vie Aeree, rachide cervicale e ossigenoterapia

In questa fase è importante verificare lo stato di coscienza del paziente traumatizzato, perché se non fosse cosciente e non avesse segni di circolo allora sarebbe necessario uscire dall’algoritmo del PTC e iniziare la rianimazione cardiopolmonare. In questo caso la priorità è data alle manovre di rianimazione piuttosto che alla corretta immobilizzazione e quindi esistono accorgimenti come la sublussazione della mandibola per non iperestendere il capo oppure l’estricazione rapida tramite manovra di Rauteck, che non prevede l’utilizzo di presidi, ma consente di garantire un minimo di asse della colonna vertebrale mentre si estrae un paziente rapidamente da un’auto.
Nel caso in cui il paziente non sia in arresto cardiaco allora si procede ad immobilizzare il capo manualmente e poi con un collare cervicale della misura adatta, dopodiché si somministra ossigeno ad alti flussi tramite maschera con reservoir. È bene notare che in questo caso si somministra ossigeno anche senza conoscere i valori di saturazione o le reali condizioni del paziente, perché è necessario prevenire l’ipossia, che è una delle cause di morte nel trauma. Si farà sempre in tempo poi a ridurre l’ossigeno se il paziente sarà definitivamente stabile.
Prima di applicare il collare cervicale è bene notare lo stato della trachea (in asse o meno) e l’eventuale turgore delle vene giugulari (che indicano un possibile PNX o tamponamento cardiaco a causa dell’impedimento del ritorno venoso). Se possibile bisogna verificare anche che non ci siano lesioni nel collo posteriore (o presenza di vetri o detriti che potrebbero ferire in seguito) passando una mano senza muovere il paziente.
Come dice la lettera stessa di questo punto della sequenza, la “A di Airways”, in questa fase si deve verificare la pervietà delle vie aeree e nel caso fossero ostruite vanno liberate con la aspirazione dei secreti o con la manovra di sublussazione della mandibola che consente di evitare che la lingua ostruisca le vie aeree evitando di iperestendere il capo, rischioso per la colonna vertebrale.
Se il paziente indossa un casco oppure è prono bisogna eseguire le manovre di rimozione del casco e di prono supinazione in modo da avere il paziente sdraiato supino e con il capo e torace liberi per poter eseguire le valutazioni.

B – Respirazione

In questa fase si deve valutare il respiro del paziente da un punto di vista quali-quantitativo. Grazie all’acronimo OPACS si procede in modo strutturato senza dimenticare nulla:
  • O = osservare la simmetria e la corretta espansione del torace
  • P = palpare il torace per ricercare segni di volet costale o di enfisema sottocutaneo
  • A = auscultare il torace per verificare se gli apici e le basi polmonari sono ventilate correttamente
  • C = contare la frequenza respiratoria per ricercare bradi o tachipnea
  • S = saturimetria (ricordando che il paziente è già sottoposto ad ossigenoterapia)
La valutazione secondo OPACS permette al soccorritore di raccogliere alcuni dei parametri indicati in precedenza che determinano la stabilità o meno del paziente.
La presenza di segni di PNX, la tachipnea, la saturazione bassa nonostante ossigenoterapia sono segni di instabilità. In caso si riscontrassero segni clinici di PNX iperteso (turgore giugulare, trachea non in asse, enfisema sottocutaneo, non ventilazione di un polmone) è opportuno procedere alla puntura esplorativa e alla decompressione con ago (di solito in secondo spazio intercostale, linea emiclaveare).

C – Circolazione e controllo emorragie arteriose

In questa fase ci si dedica alla valutazione dell’attività circolatoria del paziente. Si rileva il polso carotideo e si conta la frequenza cardiaca, poi si passa al polso radiale. La presenza del polso radiale indica di norma una pressione sistolica maggiore di 80 mmHg e quindi adeguata alla perfusione cerebrale.
Se il polso radiale è assente la pressione probabilmente sarà troppo bassa e il paziente necessiterà di un supporto volemico. A questo punto si può provvedere al monitoraggio del paziente con monitor multiparametrico e al reperimento di due accessi venosi di grosso calibro (se non si riesce va posizionato un accesso intraosseo).
Vanno ricercate anche eventuali foci emorragiche arteriose, che devono essere bloccate immediatamente per evitare il dissanguamento del paziente.
In un paziente con trauma grave è opportuno iniziare l’infusione di liquidi (generalmente in boli di cristalloidi da 250 ml) per raggiungere il target pressorio sistolico necessario per quel determinato paziente:

Trauma cranico grave 110 mmhg (pressione arteriosa sistolica)
Trauma addominale o toracico chiuso 90 mmHg (pressione arteriosa sistolica)
Trauma penentrante addominale o toracico 70 mmHg (pressione arteriosa sistolica)
Nel paziente traumatizzato cranico il target più elevato è necessario per mantenere una buona pressione di perfusione cerebrale, nel trauma perforante bisogna evitare che la pressione salga troppo per alimentare l’emorragia interna.

D - Problemi neurologici

In questa fase si deve verificare lo stato di coscienza del paziente grazie alla scala AVPU che è più semplice e veloce della Glasgow Coma Scale (GCS):
  • A = Alert (Il paziente è sveglio e ha gli occhi aperti)
  • V = Vocal (Il paziente apre gli occhi e reagisce solo se viene chiamato ad alta voce)
  • P = Pain (Il paziente apre gli occhi e reagisce solo se viene stimolato dolorosamente)
  • U = Unresponsive (Il paziente è incosciente)
Un livello di coscienza alterato indica una instabilità.

E – Esposizione del paziente e successiva protezione termica

Nell’ultima fase della valutazione primaria si deve spogliare il paziente per ricercare velocemente eventuali emorragie sfuggite in precedenza o lesioni gravi, che vanno prese in considerazione. Successivamente il paziente va coperto molto bene per evitare dispersione termica e ipotermia.
A questo punto, con un investimento di tempo di circa un minuto e mezzo–due minuti, la valutazione primaria è conclusa e si hanno elementi sufficienti per stabilire se il paziente è stabile o instabile.
  1. Paziente stabile: non ci sono alterazioni dei parametri vitali oppure l’intervento di correzione ha avuto effetto (Si passa alla valutazione secondaria)
  2. Paziente instabile: Si procede a caricamento a-traumatico e si va all’ospedale più vicino

FC FR SpO2 (con O2) Coscienza PA sistolica Segni PNX Emorraggia inarrestabile
Sopra 110/min Sopra 25/min. Sotto 90% V, P, U Sotto 80 mmHg

Secondary survey

La valutazione secondaria si attua quando il paziente risulta stabile dalla valutazione primaria. È una sequenza che permette di valutare meglio il paziente e i danni del trauma per poter intervenire nel modo più appropriato e recarsi all’ospedale migliore per le sue condizioni.
La valutazione secondaria permette di ottenere una anamnesi del paziente, raccogliere la dinamica dell’evento traumatico ed effettuare un esame completo testa-piedi della vittima. Nella anamnesi andranno raccolte informazioni varie utilizzando un modello mnemonico chiamato SAMPLE:
  • S = Segni e Sintomi
  • A = Allergie (a farmaci o altre sostanze)
  • M = Medicine (terapie in atto)
  • P = Patologie pregresse (anamnesi patologica remota e recente)
  • L = Last lunch (ultimo pasto)
  • E = Evento (come si è verificato l'evento) o Esami (eseguiti dal paziente)
La dinamica riscontrata è importante per capire quali forze abbiano agito nel trauma e quindi è opportuno capire bene dove si trovava il paziente (passeggero/conducente/pedone), se è stato sbalzato distante e quanti metri, l’altezza di una caduta, la presenza di un passeggero deceduto nello stesso abitacolo, la deformazione della cellula dell’abitacolo, la presenza di casco o cintura, lo scoppio degli airbag, il modello di auto, ecc. Se possibile può essere utile fare una fotografia da mostrare al trauma team per far capire meglio la dinamica.

I criteri di centralizzazione di un paziente con trauma

I criteri di centralizzazione di un paziente con trauma in un DEA di secondo livello servono ad aiutare il team extra ospedaliero e la centrale operativa nella decisione della destinazione del paziente.
Tali criteri sono legati sia alla clinica del paziente che alla dinamica del trauma. Può essere infatti che un paziente sembri all’apparenza illeso e risulti stabile dalla primary survey, ma che per via della dinamica molto severa sia a rischio di peggioramento improvviso per lesioni occulte ma potenzialmente letali.
I criteri clinici di instabilità per dinamica sono:
  • Eiezione da auto
  • Morte di un passeggero nello stesso veicolo
  • Investimento/arrotamento (ruote del veicolo passano sopra il corpo del paziente)
  • Scontro auto ad alta velocità
  • Caduta > 3 metri
  • Roll over (rotolamento)
  • Auto/pedone con impatto > 8 km/h
  • Scontro moto a velocità > 30 km/h oppure separazione dal mezzo
  • Estricazione che dura più di 20 minuti.

L’esame testa-piedi

Una volta che è stata raccolta l’anamnesi e individuata la dinamica, si procede all’esame testa piedi. Anche in questo caso si mantiene l’approccio ABCDE per non trascurare nulla. Se non è stato fatto in precedenza il paziente va monitorizzato e vanno misurati accuratamente tutti i parametri vitali, compresa la temperatura corporea.
È suggerito cambiarsi i guanti, perché si inizia dalla testa del paziente appunto, passando le mani nei capelli per verificare la presenza di sangue sui guanti che indicano una ferita al cranio. Si continua poi palpando le ossa craniche e craniofacciali per verificare se si evoca dolore o se ci sono instabilità. Si controllano gli zigomi, la lingua e i denti, le ossa nasali.
Si osservano le pupille per escludere anisocoria o midriasi. A questo punto si controlla la funzione cerebrale del paziente facendo un esame neurologico tramite la GCS. Si verifica anche se il paziente ha sensibilità periferica agli arti e se è in grado di muoverli.
Si procede poi ad esaminare il collo controllando nuovamente la parte posteriore e le vene giugulari assieme all’asse della trachea. Si esegue nuovamente l’esame OPACS per controllare ancora una volta la funzione respiratoria in modo più approfondito, auscultando 6 campi polmonari invece di 3 e verificando anche l’integrità delle clavicole.
A questo punto si passa all’addome controllando se è teso e dolente o se ci sono ecchimosi. Si scende verso il bacino e si controlla la presenza di eventuali fratture: si applica una pressione di circa 10 kg sulle creste iliache per vedere se c’è instabilità. Se il bacino non è stabile va applicato un T-pod o cintura pelvica, poiché la perdita ematica in caso di frattura al bacino non immobilizzata è molto elevata. La valutazione del tronco termina con la ricerca di segni di priapismo nell’uomo (pene eretto) che indica una lesione midollare.
A questo punto si passa agli arti e si controllano eventuali deformità, dolorabilità o segni di frattura o ferite e si immobilizza o medica a seconda della necessità.
La valutazione secondaria si completa con la protezione termica del paziente e il rapporto alla centrale sulle condizioni del paziente e la scelta della destinazione.
È fondamentale eseguire un monitoraggio continuo e ripetere ciclicamente la valutazione ABCDE, perché il paziente con trauma è potenzialmente evolutivo e può peggiorare repentinamente. Ogni volta che si assiste ad un peggioramento bisogna riprendere con la valutazione primaria completa.

Una volta che le valutazioni sono terminate e i problemi che mettono in pericolo la vita sono trattati allora è possibile procedere ad un caricamento a-traumatico del paziente e al trasporto verso l’ospedale indicato in base alla situazione e concordato con la centrale operativa.
Le tecniche di immobilizzazione sono diverse e vengono realizzate grazie a diversi presidi. I più importanti sono il collare cervicale, l’asse spinale, il materassino a depressione, la barella a cucchiaio (o a pettine).

Arresto cardiaco associato al trauma

L’arresto cardiaco associato al trauma è un evento drammatico in quanto la letteratura indica che se viene rinvenuto un paziente in arresto cardiaco sulla scena dell’evento traumatico le possibilità di rianimazione e ripresa delle funzioni vitali sono pressoché nulle. Nel caso in cui però un paziente sia in periarresto o vada in arresto cardiaco davanti a noi i tentativi di rianimazione possono essere efficaci se la causa è potenzialmente reversibile.
Il pneumotorace (PNX) iperteso, che non viene decompresso, porta ad arresto cardiaco. La manovra di decompressione con ago permette di ridurre il PNX iperteso ed evitare la compressione del mediastino permettendo la contrazione e riempimento cardiaco. Nella ipossia causata da incoscienza del paziente o da ostruzione delle vie aeree la corretta ossigenazione e l’utilizzo di tecniche apposite possono scongiurare il rischio di apnea con conseguente evitamento dell’arresto cardiaco.
Nel caso ci sia un paziente con danni cerebrali tali da portare alla morte cerebrale, la rianimazione ha comunque senso, perché nella tragedia la persona potrebbe diventare un donatore di organi, salvando quindi molte vite grazie a questa scelta generosa. A maggior ragione, alla luce anche di questo aspetto, la rianimazione cardiopolmonare di un paziente traumatizzato in arresto cardiaco andrebbe sempre tentata, se le risorse lo consentono.
Se il team intervenisse da solo in uno scenario in cui ci fossero più feriti che hanno chance di sopravvivenza e un ferito in arresto cardiaco allora le risorse si concentrerebbero su coloro che hanno la possibilità di sopravvivere.
Queste indicazioni sono contenute nelle linee guida per il triage pre-ospedaliero nell’emergenza traumatologica dove, grazie a particolari sistemi di valutazione in caso di più vittime e limitate risorse, è possibile assegnare ad un paziente un codice di gravità per permettere di trattare prima le persone più critiche evitando di sprecare risorse. I metodi più utilizzati sono il veloce sistema START (simple triage and rapid treatment) oppure il protocollo CESIRA (coscienza, emorragie, insufficienza respiratoria, rotture ossee, altro).
Ultimamente sta prendendo sempre più piede il concetto di prehospital trauma care – ultrasound, ovvero l’ecografia d’urgenza preospedaliera nel trauma. Utilizzare un ecografo portatile permette di fare un esame FAST (focused assessment with sonography for trauma) e quindi ricercare fonti di sanguinamento che permettono di indirizzare in modo ottimale il percorso del paziente e capire se c’è la necessità di centralizzarlo verso un trauma center o meno.

Gestione intraospedaliera del trauma grave

La gestione intraospedaliera del trauma grave è fondamentale per il buon esito delle cure di un paziente con trauma. Mentre l’approccio extra ospedaliero mira a riconoscere e trattare condizioni potenzialmente letali per dare il tempo di arrivare in ospedale (possibilmente trauma center), in ambiente ospedaliero vanno garantite le soluzioni definitive e la cura del paziente.
In particolare i pazienti traumatologici severi richiedono quasi sempre l’intervento chirurgico per riparare le lesioni causate dal trauma e soprattutto per bloccare le emorragie interne. Gli interventi più frequenti sono quelli di chirurgia addominale d’urgenza e neurochirurgia in caso di traumi cranici severi.
Anche la chirurgia toracica, in particolare per il drenaggio di emotorace e il trattamento di PNX gioca un ruolo fondamentale. Seguono gli interventi ortopedici di sintesi delle fratture o di ricostruzione di strutture danneggiate, che spesso vengono svolti dopo aver trattato le condizioni immediatamente a rischio di vita.
Il Dipartimento di Emergenza Urgenza e Accettazione (DEA) rappresenta un’aggregazione funzionale di unità operative che mantengono la propria autonomia e responsabilità clinico-assistenziale, ma che riconoscono la propria interdipendenza adottando un comune codice di comportamento assistenziale, al fine di assicurare, in collegamento con le strutture operanti sul territorio, una risposta rapida e completa.
I DEA afferiscono a due livelli di complessità, in base alle Unità operative che li compongono: DEA di I livello e DEA di II livello (Ministero della Salute 2013). Un ospedale che è sede di D.E.A. di I livello garantisce oltre alle prestazioni fornite dagli ospedali sede di Pronto soccorso anche le funzioni di osservazione e breve degenza, di rianimazione e, contemporaneamente, deve assicurare interventi diagnostico-terapeutici di medicina generale, chirurgia generale, ortopedia e traumatologia, cardiologia con UTIC (Unità di Terapia Intensiva Cardiologia). Sono inoltre assicurate le prestazioni di laboratorio di analisi chimico-cliniche e microbiologiche, di diagnostica per immagini e trasfusionali.
Un ospedale sede di D.E.A. di II Iivello assicura, oltre alle prestazioni fomite dal DEA I livello, le funzioni di più alta qualificazione legate all’emergenza, tra cui la cardiochirurgia, la neurochirurgia, la terapia intensiva neonatale, la chirurgia vascolare, la chirurgia toracica, secondo le indicazioni stabilite dalla programmazione regionale. Altre componenti di particolare qualificazione, quali le unità per grandi ustionati, le unità spinali ove rientranti nella programmazione regionale, sono collocati nei DEA di II livello, garantendone in tal modo una equilibrata distribuzione sul territorio nazionale ed una stretta interrelazione con le centrali operative delle regioni.

Il trauma team

Il paziente con trauma grave spesso è un politraumatizzato. La definizione di politrauma è un paziente che presenta una o più lesioni traumatiche ad organi o apparati differenti con compromissione attuale o potenziale delle funzioni vitali (IRC 2015).
Per garantire il soccorso ospedaliero di una vittima di trauma e soprattutto ad un paziente politraumatizzato, in Pronto soccorso gli ospedali hanno una organizzazione che permette l’attivazione precoce di un trauma team.
Questo team è di norma formato come base da un medico intensivista (rianimatore) che coordina il team, due infermieri di area critica, un medico radiologo, un tecnico radiologia, il medico del Pronto soccorso. In aggiunta possono essere presenti il neurochirurgo, il chirurgo generale e/o toracico e l’ortopedico.
I criteri di attivazione del trauma team sono:
  • l’arrivo di un paziente politraumatizzato
  • l’instabilità emodinamica
  • la compromissione di una funzione vitale
  • il paziente intubato e sedato.

Il compito del trauma team sarà quindi quello di stabilizzare il paziente anche con manovre avanzate, effettuare la diagnostica necessaria per capire di che lesioni soffre il paziente (Ecografia FAST, TAC total body, angio TAC, ecc.) e quindi trattare le lesioni in base alla priorità. Talvolta vengono anche operati due distretti corporei in contemporanea da parte di chirurghi di specialità diverse per ottimizzare i tempi.
Una volta che il paziente è stato sottoposto agli interventi salvavita ed è stato stabilizzato viene trasferito in rianimazione e terapia intensiva, dove è sottoposto a monitoraggio avanzato anche invasivo e dove vengono coordinati e svolti gli interventi secondari che non rappresentavano la priorità iniziale.
In particolare in terapia intensiva è fondamentale prevenire i danni secondari (il terzo picco di mortalità descritto in precedenza che avviene a giorni o settimane di distanza dal trauma a causa di sepsi, complicanze tardive, sindrome da scompenso multiorgano, ecc).
La gestione del paziente critico politraumatizzato in rianimazione richiede competenze infermieristiche avanzate, perché gli aspetti da presidiare sono moltissimi, comprese le manovre di nursing che possono incidere seriamente sugli esiti dei pazienti (ad esempio il posizionamento del capo in un paziente con trauma cranico severo è determinante per non far aumentare la pressione intracranica).
Per coloro che volessero avvicinarsi a questo complesso mondo della gestione del trauma vengono consigliati i corsi avanzati del Prehospital Trauma Care (secondo linee guida IRC) oppure la partecipazione ad un master universitario di primo livello in emergenza o area critica.

Diabete: come calcolare la giusta dose di insulina da iniettare

 Diabete: come calcolare la giusta dose di insulina da iniettare



 Esistono gli articoli fatti per osare, per cercare una reazione, per cercare di ispirare

Eppoi invece ci sono io che cerco di inspirare e contare fino a dieci prima di scrivere di prescrizione infermieristica.
Tanto è stato scritto, tanto è stato detto, spero che anche tanto sia stato letto. Sarebbe pertanto superfluo parlare ancora di prescrizione infermieristica in quanto tale.
Parliamo allora del calcolo per il dosaggio dell’insulina, allo stesso modo in cui ci raccontano di come sia possibile asportare un rene senza che però sia una competenza infermieristica. Ma come si suol dire, non c’è cultura senza curiosità.
Riguardo ai metodi di dosaggio dell’insulina, è possibile avvalersi della conta dei carboidrati. Questo metodo ci permette di adeguare la dose di insulina da iniettare tenendo in considerazione la quantità circa dei carboidrati che saranno assimilati dal pasto. Il vantaggio principale che deriva dalla scelta di questo metodo riguarda il comfort dell’assistito al quale viene permessa una maggior scelta di alimenti per i propri pasti.
Il conteggio dei carboidrati avviene tramite un semplice calcolo basato sulla quantità di alimento assunta rapportata al numero di carboidrati presenti in quell’alimento.
Per conoscere quest’ultimo, è necessario l’utilizzo della tabella appositamente creata dal CREA (Consiglio per la Ricerca in agricoltura e l’analisi dell’Economia Agraria), disponibile al seguente link: nut.entecra.it
Come si decide la dose di un bolo prandiale?
Gli elementi utili alla definizione del dosaggio di insulina per il bolo prandiale sono quattro:
  • Glicemia misurata;
  • Carboidrati da consumare;
  • Insulina residua attiva;
  • Attività fisica.
Da ognuno di essi si deriva una “porzione” del calcolo finale, realizzato quindi grazie alla somma di tutte queste “porzioni”.
Per quanto riguarda la glicemia misurata, l’obiettivo glicemico è rappresentato da 120 mg/dl. Seguendo le regole del calcolo del dosaggio, le unità di insulina che derivano da questa correzione di glicemia si otterranno sottraendo l’obiettivo glicemico al valore dello stick glicemico e poi dividendone il risultato per 40 (numero convenzionale detto fattore correttivo).
Un esempio è quindi rappresentato da uno stick glicemico di 280, a cui sottrarre l’obiettivo glicemico di 120 ottenendo 160 (280 – 120), e dividendolo per il fattore correttivo ovvero 40.
160 : 40 = 4 UI di insulina come primo addendo del dosaggio finale.
Passiamo ai carboidrati da consumare. In età adulta il rapporto tra insulina e carboidrati (CHO) da consumare è stimato in 1 UI di insulina per 10/15 gr di carboidrati. Come abbiamo visto prima, grazie alla tabella è possibile orientarsi ed una volta calcolato il numero di carboidrati (CHO) che verranno assunti sarà necessaria una semplicissima divisione.
Esempio sono 100 gr di pane classico che forniscono 66 gr di carboidrati disponibili.
66 : 15 = 4,4 UI di insulina necessaria riguardo ai CHO da assumere.
Il calcolo dell’insulina residua attiva si basa sulla regola che l’insulina ultrarapida abbia una biodisponibilità di circa 3 ore e che si consumi al ritmo di 1/3 della dose ogni ora.
In caso di bolo effettuato quindi nelle ultime tre ore sarà necessario stabilirne le unità e SOTTRARLE al calcolo finale. Continuando il nostro esempio, immaginando una somministrazione due ore prima del pasto di 6 UI di insulina possiamo calcolarne 1/3 come insulina residua ancora attiva, ovvero 6 : 3 = 2.
Ultimo calcolo è dato dall’attività fisica: rappresenta il calcolo più difficile e di difficile applicazione ma non per questo non applicabile a priori. Un’attività fisica intensa può essere fattore di riduzione della dose finale da somministrare fino a 1/3 – 1/2 dose.
Riassumendo il nostro esempio:
  • UI di insulina derivanti dal calcolo per la glicemia misurata 4 UI
  • UI di insulina derivanti dal calcolo per la conta dei carboidrati da assumere 4,4 UI
  • UI di insulina derivanti dal calcolo dell’insulina residua attiva -2 UI
  • 4 UI + 4,4 UI – 2 UI = 6,4 UI
In caso di attività fisica intensa prevista, decidiamo di sottrarre 1/3 della dose rimanendo con 4.2 UI, arrotondando il bolo a 4UI di insulina.
Occorre non farsi spaventare, tutti i calcoli e le procedure, messi per iscritto sembrano incredibilmente macchinosi e lunghi ma nella quotidianità di tutti i giorni risultano essere semplici e veloci.
Come precedentemente detto, non c’è cultura senza curiosità, in attesa che la curiosa cultura personale si trasformi in base teorica di una competenza.