venerdì 25 marzo 2016

Quando sei Infermiere lo sei per tutta la vita

Faccio il lavoro più bello del mondo: vivere il cambiamento radicati al passato ma con uno sguardo al futuro genera nuove energie e speranze

Un Infermiera Racconta
Un Infermiera Racconta
Speranza e fiducia, passione ed energia sono le emozioni che emergono nel leggere il libro scritto da Sabatina Pisaneschi classe 1951 infermiera da sempre e per sempre. Il libro “Un’Infemiera Racconta – esperienze di vita tra corsia e famiglia” ci proietta in un passato non troppo lontano con ricordi che sono ben stampati nella sua mente e nel suo scritto.
Dopo circa 40 anni di lavoro come infermiera e poi come infemiere coordinatore Sabatina ha uno spaccato molto particolare della figura infermieristica. Lei si rende conto che nella Sanità stanno cambiando tante cose, anche il ruolo dell’infermiere sta cambiando, allora le viene in mente che forse potrebbe interessare a qualcuno sapere com’era il lavoro negli anni Settanta e non solo.
Abbiamo raccontato dell’interessante centro Centro di documentazione della Cultura Infermieristica a Firenze che cerca di aiutare gli Infermieri, gli studenti e tutti i cittadini a documentarsi sul passato e sulla cultura infermieristica che ci ha formato da sempre.
Qui invece viviamo un’avventura, un racconto che ci riguarda tutti e che ci permette di esplorare un passato di cui non possiamo fare a meno ma che sembra essere fondamentale per il nostro futuro, per i giovani studenti in infermieristica e per tutti coloro che hanno a cuore il Sistema Sanitario dove gli Infemieri hanno un ruolo sempre più centrale.

– Come è nata l’idea di fare un libro sull’esperienza vissuta?
Ho fatto la scuola convitto per infermiere a Firenze avevo 19 anni. Successivamente ho lavorato presso l’ospedale del Ceppo di Pistoia per 40 anni, prima come infermiera e poi come caposala (oggi chiamati Coordinatore).
Mi sono resa conto che nel mondo della sanità stanno cambiando tante cose allora mi è venuto voglia di raccontare chi era l’infermiere degli anni ’70 e come si lavorava.
Il motivo principale per cui ho scritto questo libro “Un’infermiera Racconta” è lasciare una testimonianza scritta per raccontare come era ieri il nostro lavoro e le difficoltà che abbiamo avuto nella professione infermieristica, un aiuto che può essere utile per una riflessione per il nostro futuro.
È un racconto autobiografico dove descrivo come si viveva in montagna negli anni ’70 e quando sono partita proprio da questo luogo Cassarese, a 18 anni per andare a vivere in convitto a Firenze, per studiare da infermiera dove l’accesso era per sole donne, perché si pensava che fossero più adatte a prendersi cura degli ammalati.
Questo racconto è legato alle emozioni, al periodo del convitto, ai sogni di una ragazzina che va incontro alla propria vita con l’entusiasmo dei giovani, descrivo quando ho sentito forte dentro di me il desiderio di diventare infermiera.
Come mi sentivo da allieva, cosa rappresentava per me indossare la divisa, com’ era la vita in convitto, ma soprattutto parlo dell’ importanza del malato e dei suoi familiari.
Ho provato a raccontare cosa prova un infermiere quando va a lavorare e come concilia lavoro e famiglia, per fare ciò ho cercato di non perdere mai di vista l’emozione. Questo lavoro è nato e si è sviluppato piano piano nel tempo. Ad un certo punto della mia vita lavorativa mi sono detta: “Ma quante cose cambiano in sanità”. E ho cominciato a chiedermi
“Fare l’infermiere oggi è diverso da ieri”?
Ho iniziato così a pensare che mi sarebbe piaciuto scrivere come si lavorava ieri per confrontarlo con i tempi odierni. Mi sembrava un sogno nel cassetto, da tenere lì e fantasticarci sopra, però ogni tanto riaffiorava alla mente, anzi era sempre presente.
“Però quando sei infermiera lo sei per tutta la vita, io sentivo forte dentro di me il desiderio di raccontare chi è veramente un’infermiere”.
Scrivere mi piaceva era parte di me trasmettevo su carta tutte le mie emozioni, tutto il mio vissuto d’infermiera. Questo mi ha riempito di gioia, era come se rivivessi di nuovo l’esperienza vissuta e il cuore mi si allargava, il calore della gioia m’ invadeva fino a farmi piangere. Mi ha riportato a quegli anni, mi ha fatto vedere l’importanza delle relazioni, delle amicizie quelle vere, che anche se non le frequenti non le perdi mai.
Ripercorrere la strada del passato con lo stesso affetto, anzi molto più intenso di allora.
– Rifaresti l’Infermiera ? perché ?
Certamente senza ombra di dubbio sicuramente rifarei l’infermiera!
Ho sempre amato la mia professione, anche nelle difficoltà che non sono mancate, ma sopratutto essere infermiera poter stare vicino al malato, prendersi cura di lui e dei suoi familiari con amore mi ha fatto sentire importante.
Quando ero al letto del malato e capivo i suoi bisogni di assistenza vedevo un’espressione di gratitudine nel suo sguardo che mi riempiva di gioia. Mi sono così resa conto che la mia vita non era sprecata, anzi era utile agli altri. Avevo chiaro chi ero e sentivo la responsabilità di fare seriamente il mio lavoro, cercando di farlo nel modo migliore di cui ero capace, senza perdere mai di vista il bisogno del malato.
Essere infermiera e sentirsi tale mi ha dato un’identità chiara e precisa sia nel lavoro che nella vita privata. Nella mia professione ho ricevuto stima e fiducia dai colleghi dai medici dai responsabili, ma soprattutto sono stata apprezzata e ringraziata dagli ammalati.
Questo lavoro mi ha fatto capire l’importanza degli altri nella vita di ogni uno.
Infermieri una garanzia di qualità per il Servizio Sanitario
Infermieri una garanzia di qualità per il Servizio Sanitario
– Cosa dire ai giovani che vogliono iscriversi al corso di Laurea Infermieristica?
È soprattutto a voi giovani studenti che mi rivolgo perché se sappiamo da dove siamo partiti capiamo anche meglio dove stiamo andando.
Dal mio libro Un’infermiera Racconta: “ Vorrei regalare le mie emozioni, la mia esperienza lavorativa a chi legge, ai giovani studenti in infermieristica, perché possano avere una briciola di racconto del passato, del vissuto di un’infermiera, nata in un piccolo paese di montagna in tempi diversi da quelli attuali”.
Essere nel cambiamento non significa farsi travolgere ma cercare di diventarne in qualche modo protagonista, approfittare delle opportunità che ti vengono poste, assumersi responsabilità sempre più elevate per raggiungere la propria autonomia e i propri spazi.”
Chi è oggi l’infermiere? Come lavora? Con quali strumenti? La Sanità sta cambiando, con passi da gigante. Come sono oggi le relazioni umane negli ospedali? Chi si prende cura del malato?
Vorrei dire soprattutto a voi che rappresentate il nostro futuro: Il cammino è ancora lungo ma dobbiamo essere forti, presenti e avere ben chiaro chi siamo.
L’assistenza è veramente un’arte se stiamo vicini al malato con un sorriso. Con questa terapeutica vicinanza abbiamo già fatto una buona parte della nostra arte.
E quando nel prenderci cura riusciamo a vedere i risultati di autonomia del malato, siamo veramente soddisfatti del nostro lavoro.
L’importante è non perdere mai la fiducia, la speranza che trasforma anche le situazioni difficili nonostante tutto e malgrado tutto, lasciando aperta la porta della fiducia e della speranza tutto può sempre cambiare.
“Quanto la nostra vita potrebbe essere diversa e serena se ognuno di noi nel suo piccolo riuscisse a coltivare l’amore che ha dentro di sé e donarlo così agli altri senza aspettarsi nulla in cambio”.

Centro di Documentazione della Cultura Infermieristica: il prendersi cura, ieri come oggi

Il passato può servire per capire meglio dove siamo, cosa siamo, dove vogliamo andare e cosa vogliamo fare

Vogliamo ringraziare la D.ssa Fabiola Piatti (docente a contratto dell’Università di Firenze e dirigente Infermieristico) per averci dato l’opportunità di conoscere questo centro e di parlarci un po’ di ciò che racchiude. Il mondo della Cultura Infermieristica, del suo passato e delle specifiche che da sempre contraddistinguano il sapere infermieristico. Per capire bene gli altri, dobbiamo prima sapere chi siamo noi e da dove veniamo. Questo sembra un percorso scontato, alle volte invece è poco discusso dalle realtà scientifiche che si occupano anche di formazione. Ci sembra quindi un ottima occasione per fare delle riflessioni e iniziare a documentarsi sul nostro passato e sulla cultura che ci ha formato da sempre. Se passate da Firenze e visitate anche l’Azienda Ospedaliera di Careggi non dimenticate di andare a vedere il Centro di Cultura Infermieristica, ne rimarrete sorprendentemente affascinati.infermiere

1) A Firenze presso l’ospedale di Careggi esiste un “museo” particolare in cui si raccolgono storie e vissuti dell’infermieristica italiana. Ci può fare un accenno di questo ambiente fortemente voluto all’interno del presidio ospedaliero/universitario?

Più che parlare di Museo lo definirei per quello che in effetti è: Centro di Documentazione della Cultura Infermieristica. Museo è un concetto statico, un museo è tutto ciò che c’è all’interno di un contenitore. Ma il contenitore dove ha inizio? Dove ha fine?
Nel nostro caso ci può essere un inizio, l’avvio delle Scuole Convitto per Infermiere, ma non una fine perché il Centro rappresenta e vuole rappresentare una forma di antropologia critica e riflessiva sulla Cultura Infermieristica, sulla Cultura del Prendersi Cura, ieri come oggi.
Il Centro di Documentazione della Cultura Infermieristica nasce infatti per colmare un’assenza. L’assenza della visibilità di una cultura troppo spesso confusa come appendice della cultura medica. Il Centro, inaugurato il 10 maggio 2013, si pone l’obiettivo di archiviare, tutelare, conservare, valorizzare, documentare, attraverso beni materiali e immateriali, tutto quanto ha avuto e ha a che fare con il sapere, il saper fare, il saper essere della professione infermieristica.
A oggi il Centro contiene la raccolta delle memorie orali sulla vita professionale, vecchie fotografie, la documentazione originale a partire dal 1926 della Scuola Convitto per Infermiere Beatrice Portinari di Firenze, la corrispondenza fra l’allora direttrice e le allieve, le richieste di domanda di ammissione, i registri delle lezioni, delle punizioni, delle presenze e dell’organizzazione del tirocinio, le lettere di presentazione che le candidate dovevano presentare per essere ammesse, i regolamenti del Convitto, vecchi e nuovi oggetti di uso assistenziale ritrovati grazie al lavoro e al coinvolgimento di tanti colleghi.
Per ogni “bene” consegnato viene compilata una scheda che indica chi lo porta, dove è stato ritrovato, a cosa serviva, se ci sono ricordi o eventi particolari legati a quell’oggetto, tracciando così un’ulteriore storia di quell’oggetto di affezione che ha rappresentato un percorso e un’esperienza di vita e che diventa documento di un’emozione, di una ritualità, di un linguaggio specifico, di un senso e di un significato che rendono peculiare la Cultura Infermieristica.
non fumate
Il passato e il futuro degli Infermieri

2) Perché è importante conoscere la storia degli Infermieri se si vuole garantire un Futuro solido all’infermieristica?

Perché la Storia è Memoria, e memoria significa ripensare criticamente il passato, però con gli occhi del presente, con le categorie mentali del presente.
Il passato forse può non servire per risolvere i problemi del presente, ma può servire per capire meglio dove siamo, cosa siamo, dove vogliamo andare, cosa vogliamo fare. Conoscere serve per analizzare e riflettere sui nostri valori professionali, su ciò che fa della Professione Infermieristica una specificità culturale. Ecco, il Centro di Documentazione lo definirei uno spazio politico.
Uno spazio che ci ricordi il privilegio che abbiamo di vicinanza e solidarietà con chi assistiamo, con chi si affida a noi. Troppo spesso ci dimentichiamo di questo privilegio. Troppo spesso, in maniera assertiva, accettiamo di essere “negati e silenziati”.
La Cultura del Prendersi Cura può diventare una forza controcorrente al paradigma contemporaneo di individualismo e competitività. Un modello culturale differente all’efficientismo delle nostre organizzazioni sanitarie. Se però non riusciamo a ri/conoscerci e a ri/conoscere la forza che sta nella nostra differenza culturale, saremo destinati a essere un “museo”.

sabato 12 marzo 2016

La violenza verso gli operatori del Pronto soccorso

Durante il proprio servizio, gli operatori sanitari sono esposti a numerosi fattori dannosi sia per la salute che per la sicurezza. Tra questi assume particolare rilevanza il rischio di affrontare un'esperienza di violenza che può consistere in aggressione o altro evento criminoso tale da portare a lesioni personali importanti o al decesso.
Il National institute of occupational safety and health (Niosh) definisce la violenza sul posto di lavoro come ogni aggressione fisica, comportamento minaccioso o abuso verbale che si verifica sul posto di lavoro. Una stima del Bureau of labor statistics statunitense indica per gli operatori ospedalieri un tasso di incidenza di aggressione non mortale pari a 9,3/10.000, contro un valore di 2/10.000 nei lavoratori delle industrie del settore privato.
Gli episodi di violenza verso gli operatori sanitari possono essere considerati degli eventi sentinella: si tratta infatti di segnali indicativi di situazioni di rischio o di vulnerabilità che richiedono l’adozione di opportune misure di prevenzione e protezione dei lavoratori.
Il problema è insorto anche nell’ambito del Pronto soccorso dell’Asl di Vercelli, presso i presidi di Borgosesia e di Vercelli. Recenti episodi di aggressione sia fisiche che verbali a danno degli operatori sanitari del servizio e la mancanza di documentazione e letteratura di riferimento nazionale ci hanno stimolato ad approfondire il fenomeno. Inoltre dai dati Inail risulta che la maggioranza degli infortuni accaduti nelle strutture ospedaliere italiane siano rivolti agli infermieri: nel 2005 si è trattato di 234 infermieri rispetto a soli 7 medici.
Gli episodi di violenza: la nostra realtà
Abbiamo messo a confronto la casistica dei Pronto soccorso della nostra Azienda: a Vercelli non risultano segnalati episodi di aggressioni, siano queste fisiche (con l’apertura di una denuncia di infortunio presso l’Inail) che verbali (rilevate tramite la compilazione di una scheda anonima). Invece nel Pronto soccorso di Borgosesia risultano segnalati diversi episodi di aggressione, sia fisica che verbale: dal settembre 2008 fino all’agosto 2009 risultano compilate 12 schede di segnalazione di aggressione verbale, oltre a 2 referti per l’autorità giudiziaria con giorni di prognosi (3-5) e relativa richiesta di infortunio sul lavoro.
A Vercelli davvero non ci sono episodi, o piuttosto non si segnalano attraverso la scheda anonima per le aggressioni verbali?
Per rispondere a questo dubbio abbiamo somministrato agli operatori dei nostri Pronto soccorsi un questionario sul problema delle aggressioni: a quelli di Vercelli (70 questionari, restituiti 50), come a quelli di Borgosesia (50 questionari, restituiti 40). Gli operatori che hanno maggiormente risposto sono stati gli infermieri (il 52% del campione).La maggior parte di loro si dichiara preoccupato (33%) o abbastanza preoccupato (22%) o molto preoccupato (22%) per gli episodi di violenza. Il 40% è a conoscenza che esistono delle procedure per la denuncia della violenza sul posto di lavoro, ma il 60% non sa come attivarle. Solo l’11% ha dichiarato di essere stato aggredito fisicamente negli ultimi due mesi (Figura 1), mentre quasi l’80% è stato aggredito verbalmente (Figura 2).
Figura 1 – Aggressioni fisiche subite nei Pronto soccorsi della Asl


Figura 2 – Aggressioni verbali subite nei Pronto soccorsi della Asl

Il 90% dei rispondenti ritiene che le aggressioni fisiche e/o verbali siano un rischio occupazionale tipico del proprio lavoro. In genere le aggressioni sono da messe in atto dai pazienti o dai loro parenti (Figura 3).
Figura 3 – Aggressori nei Pronto soccorsi della Asl

Il 4% degli aggrediti ha tentato di difendersi e solo il 5% ha esposto denuncia, mentre il 25% ha riferito l’episodio a un collega o a un amico (5%) o ad altre persone (12%). Infine, il 14% dichiara di aver preso provvedimenti.
Cosa accade dopo l’aggressione?
Il 4% ha avuto necessità di cura per le lesioni subite, anche se solo il 3% (2% Vercelli vs 5% Borgosesia) ha avuto la necessità di assentarsi dal lavoro dopo l’episodio di violenza. Inoltre il 17% ne riporta ricordi inquietanti o si è sentito successivamente in super-allerta (36%). Alcuni addirittura preferiscono evitare di pensarci o parlarne (4%): nel presidio di Borgosesia questo viene lamentato in modo più netto (circa 10% in più rispetto a Vercelli). Infine quasi tutti dichiarano di non essere in grado (19%) o poco in grado (17%) o appena in grado (45%) di gestire un’aggressione, tanto che ritengono utile (15%) o molto utile (45%) una formazione ad hoc sul tema.
Conclusioni
Le aggressioni da parte dei pazienti, dei loro parenti e/o accompagnatori sono messe in atto solo in qualche caso da soggetti con alterate condizioni psichiche (etilismo acuto, turbe psichiatriche, etc.); nella maggior parte dei casi, invece, l’aggressione rappresenta l’acme di una situazione di conflitto e tensione, indicativa di un più complessivo quadro di malessere delle persone e d’inadeguatezza dell’organizzazione.
L’infermiere di triage rappresenta il primo momento di interfaccia tra l’utente, che non sempre riesce a valutare adeguatamente l’entità del suo problema, e il servizio, che questo problema deve prendere in carico, se non risolvere. Ciò può provocare nel paziente e nei suoi accompagnatori un atteggiamento contrattualista, che da un lato coglie correttamente la funzione di gatekeeper svolta dall’infermiere addetto al triage, dall’altro lo porta ad ottenere/strappare il massimo, ovvero l’accesso subitaneo all’iter diagnostico-terapeutico. Da questo può derivare una frustrazione per il mancato riconoscimento della serietà/gravità della propria situazione, che può trasformarsi in ostilità verso gli operatori. Nel valutare l’effetto delle aggressioni, va ricordato che quelle verbali possono assumere toni di grande violenza e sono assai più frequenti di quelle fisiche.
Quanto finora esposto evidenzia che il team del Pronto soccorso di ambedue i presidi dell’Asl di Vercelli è esposto ad aggressioni sia fisiche che verbali; lo scarso numero di segnalazioni dipende principalmente dalla disinformazione sulle procedure. Pertanto l’informazione e la formazione del personale al riguardo risultano un aspetto cruciale.

Violenza e aggressioni in Pronto Soccorso: revisione della letteratura

RIASSUNTO
Introduzione Numerosi studi internazionali indicano che gli infermieri di Pronto Soccorso sono tra gli operatori sanitari i più esposti ad atti di violenza nel corso della loro attività lavorativa. In Italia, pur mancando statistiche sulla diffusione del fenomeno, sono state raccomandate misure preventive e interventi di contrasto agli abusi. Scopo del presente studio è quello di inquadrare il problema e di esaminare le principali strategie di gestione delle aggressioni proposte dalla letteratura più recente.
Materiali e metodi Abbiamo condotto una revisione narrativa di articoli pubblicati su questo argomento durante gli ultimi 5 anni, identificati consultando le banche dati PubMed e CINAHL.
Risultati Questa analisi della letteratura mostra che il problema della violenza in Pronto Soccorso può essere affrontato con interventi a diversi livelli: dall’adozione di misure di sicurezza come sistemi di allarme e servizi di sorveglianza alla formazione specifica per gestire le situazioni a rischio di aggressione, dal miglioramento dell’approccio relazionale ai pazienti alla registrazione sistematica degli atti di violenza.
Conclusioni Gli studi esaminati forniscono indicazioni importanti che possono essere utilizzate, con l’impegno e la partecipazione di tutte le parti coinvolte, per elaborare e implementare programmi di prevenzione della violenza mirati a garantire un ambiente di lavoro più sicuro per gli infermieri di Pronto Soccorso.
Parole chiave: violenza, abuso, aggressione, infermieri, pronto soccorso


Violence and aggression in the Emergency Department: a literature review

ABSTRACT
Introduction Many international studies show that Emergency Department nurses are the healthcare professionals most exposed to violence in the workplace. In Italy, despite the lack of data on the severity of the problem, preventive measures and interventions have been recommended to reduce the incidents of abuse. The aim of this study is to outline the problem and examine the main strategies for managing violence and aggression suggested by the most recent literature.
Material and methods We conducted a narrative review of the literature published on this topic in the last 5 years using the PubMed and CINAHL databases.
Results This analysis of the literature shows that the problem of violence towards ED nurses can be addressed by using a number of different measures, which include adequate systems of security, specific training in methods to deal with aggressive people and to defuse potentially troublesome situations, improvement in attitudes towards the patients and systematic reporting of incidents.
Conclusions The studies examined provide suggestions that can be helpful to develop and implement, with the commitment and participation of all the parties involved, comprehensive violence prevention programs aimed at ensuring a safer workplace for ED nurses.
Key words: violence, abuse, aggression, nurses, emergency department


INTRODUZIONE
La violenza sul luogo di lavoro è ormai universalmente riconosciuta come un importante problema di salute pubblica nel mondo (World Health Organization, 2002). Per quanto riguarda gli operatori sanitari, e in particolare il personale infermieristico delle strutture di Pronto Soccorso, la letteratura internazionale sull’argomento mette in evidenza le preoccupanti dimensioni del fenomeno, che rimane comunque tendenzialmente sottostimato a causa della scarsa propensione a denunciare gli episodi di violenza da parte degli infermieri (Anderson, 2002a; Ferns, 2006; Lewis et al., 2007).
Per il Regno Unito, Saines (1999) rileva che l’incidenza delle aggressioni perpetrate nei confronti degli infermieri dei reparti di Pronto Soccorso è pari al 50% del totale complessivo degli episodi di violenza verso operatori sanitari. Più recentemente, la percentuale stimata per gli ospedali generali britannici da Winstanley e Whittington (2004) risulta inferiore (circa il 30% di tutti gli “attacchi” contro il personale sanitario) ma rimane comunque allarmante; soprattutto se si considera che in questa indagine più del 68% degli intervistati riferisce di essere stato oggetto nel corso dell’anno precedente di aggressioni verbali, mentre più del 30% riporta di avere subito percosse.
Oltreoceano la situazione non appare certo migliore. La gravità del fenomeno è ribadita dai risultati di uno studio statunitense che ha coinvolto 3.465 infermieri di Dipartimenti di Emergenza: nei 3 anni precedenti la ricerca, quasi il 20% del campione esaminato era stato vittima di abusi verbali più di 200 volte, mentre circa il 25% era stato vittima di aggressioni fisiche più di 20 volte (Gacki-Smith et al., 2010). In Australia uno studio analogo condotto su un gruppo di 266 infermieri riporta un’incidenza pari al 58% per le aggressioni verbali e al 14% per quelle fisiche (Lyneham, 2000), mentre un altro parla di un’epidemia di abusi e violenze (Chapman, Styles, 2006).
Alcuni ipotizzano che le cifre riscontrate da simili indagini, che evidenziano un’alta frequenza di aggressioni in Pronto Soccorso rispetto ad altri ambiti lavorativi, siano almeno in parte frutto di una maggiore propensione degli infermieri dei servizi di emergenza alla partecipazione a ricerche di questo tipo, e quindi legate a una sorta di sovraesposizione (Hodge, Marshall, 2007). Altri ricordano invece che molti di questi incidenti non vengono denunciati (Lau et al., 2004): perché la violenza è in qualche modo considerata parte inevitabile dei contesti operativi dell’infermiere di Pronto Soccorso (Jones, Lyneham, 2000; Pich et al., 2011), giustificata in quanto non consapevolmente voluta dal paziente che la commette (Harulow, 2000), tollerata in occasione di episodi minimizzati come trascurabili (Luck et al., 2007), o persino percepita come una perdita di performance (Alexy, Hutchins, 2006).
In Italia Becattini e collaboratori (2007), in uno studio condotto su 15 strutture di Pronto Soccorso di 14 regioni italiane, rappresentative di tutto il territorio nazionale, delineano questo scenario: quasi tutti gli infermieri intervistati riferiscono di essere stati aggrediti verbalmente (90%) o di aver assistito ad aggressioni nei confronti di colleghi (95%); il 35% del campione ha subito atti di violenza fisica, più della metà (52%) ne è stata testimone; poco meno di un terzo degli infermieri (31%) ha avuto bisogno di cure mediche a causa di un’aggressione, con prognosi fino a 5 giorni (13%), da 5 a 15 giorni (11%) o superiore a 15 giorni (6%).
La conoscenza statistica del fenomeno, lo studio delle tendenze e dei fattori di rischio – come il sesso e l’età degli assalitori (Figura 1) o le cause scatenanti i comportamenti violenti (Tabella 1) – è fondamentale per improntare programmi di prevenzione e di azione contro gli atti di violenza commessi nei confronti degli infermieri di Pronto Soccorso (Anderson, 2002b; Child, Mentes, 2010; Crilly et al., 2004; Gates et al., 2006).




MATERIALI E METODI
Tra novembre e dicembre 2010 abbiamo condotto una ricerca preliminare della letteratura internazionale riguardante l’argomento “aggressioni in Pronto Soccorso” nelle banche dati PubMed e CINAHL. La ricerca è stata effettuata in entrambi i database utilizzando i termini “emergency” (MeSH), “aggression”, “violence”, “abuse”, combinati tramite operatori booleani OR e AND, con limiti per lingua e data di pubblicazione (rispettivamente inglese o italiana e ultimi 10 anni).
Contestualmente è stata ricercata la letteratura grigia sull’argomento (in modo particolare per il contesto italiano) tramite il motore di ricerca Google Scolar. Questa fase preliminare ci ha consentito di inquadrare con più precisione il campo di ricerca e soprattutto di acquisire elementi utili per eseguire la Facet Analysis. Il sistema della Facet Analysis (Vellone, Piredda, 2009), una volta individuati i concetti essenziali del quesito di ricerca, ha consentito di ampliare il campo e di reperire il maggior numero di articoli (completezza) sull’argomento “gestione delle aggressioni a infermieri in Pronto Soccorso” (pertinenza).


La Tabella 2, che si rifà al metodo P&PICO, mostra il quesito in forma analitica.
La scelta delle parole chiave, più precisamente delle voci di thesaurus, termini descrittori utilizzati per la ricerca, è stata fondamentale per interrogare le banche dati da cui attingere la bibliografia di riferimento. Nodale in questa fase è stata l’analisi delle pubblicazioni raccolte durante lo studio preliminare. Nella pianificazione delle modalità di ricerca nei database sono state scelte sia quella tramite thesaurus, sia quella sui campi, sia quella libera. Pertanto sono stati combinati termini MeSH e parole a testo libero (Tabella 3).


Per aumentare la specificità della ricerca, l’interrogazione con i termini a testo libero è stata limitata esclusivamente al campo “Title/Abstract” dei record; per i descrittori a testo libero composti da più parole sono stati usati in CINAHL gli operatori di vicinanza N2 o N3, in PubMed la stringa virgolettata. Le parole chiave scelte sono state collegate tramite gli operatori booleani OR e AND.
La ricerca definitiva è stata condotta nelle banche dati PubMed e CINAHL dal 24 al 28 marzo 2011, considerando gli articoli in versione abstract o full text pubblicati negli ultimi 5 anni.
RISULTATI
La nostra ricerca ha identificato complessivamente 83 articoli (55 in PubMed e 36 in CINAHL, con 8 presenti in entrambi i database). Applicando ulteriori criteri di inclusione ed esclusione, abbiamo selezionato 36 studi che esaminavano il fenomeno della violenza contro gli infermieri di Pronto Soccorso valutando anche possibili approcci o strategie per la gestione delle aggressioni; 7 di questi studi, descritti sinteticamente nella Tabella 4, sono stati quindi scelti per un’analisi più approfondita.



Tutti i lavori selezionati, e non solo quelli riportati nella tabella, giungono comunque alla medesima conclusione: il problema delle aggressioni in Pronto Soccorso è un fenomeno complesso, che deve essere a sua volta “aggredito” con interventi a 360 gradi. Affidarsi alle sole dichiarazioni di intenti o a politiche aziendali formali non può essere una strategia vincente, come ribadiscono Jacqueline Pich e collaboratori (2011) in un recentissimo contributo sull’argomento. Lo studio sottolinea in particolare la necessità di misure di sicurezza, come sistemi d’allarme e presenza attiva di un servizio di vigilanza interno, e di una formazione specifica del personale infermieristico per la prevenzione e la gestione delle aggressioni. Le stesse conclusioni, per quanto riguarda quest’ultimo punto, sono tratte da altri autori australiani (Rintoul et al., 2009).
Sempre in Australia, un gruppo di infermieri di Sidney propone uno strumento in grado di intercettare potenziali aggressori attraverso la valutazione di una serie di fattori predittivi, anche in mancanza di una “anamnesi” significativa per precedenti violenti (Wilkes et al., 2010). A questo proposito uno studio statunitense raccomanda l’impiego di un sistema di registrazione dei pazienti aggressivi, che in caso di nuovo accesso al Pronto Soccorso possono così essere cortesemente invitati “a ricordare le conseguenze di un comportamento inappropriato” (ED Nursing, 2007). Altri approcci suggeriti dallo studio sono decisamente più orientati al paziente: spiegare sempre i motivi dell’attesa dando frequenti aggiornamenti sulla situazione, anche attraverso la figura di un apposito operatore dedicato alle relazioni con l’utenza in sala di aspetto; favorire le scelte dei pazienti e assecondarne le richieste più semplici.
L’importanza dell’approccio relazionale è valutata, attraverso l’osservazione diretta dei partecipanti e interviste informali o semistrutturate, anche nello studio condotto da Luck e collaboratori (2009). Dall’esame delle strategie normalmente utilizzate dagli infermieri coinvolti nell’indagine per evitare, ridurre o prevenire gli abusi, emergono 5 atteggiamenti fondamentali insiti nella natura dell’assistenza infermieristica: rassicurazione, disponibilità, rispetto, supporto e responsività. In assenza di altri interventi, l’efficacia di tali atteggiamenti è però limitata: lo studio segnala 16 episodi di violenza durante il periodo di osservazione (290 ore).
Dimostrata è invece l’efficacia del programma educazionale ACT-SMART (Attitudes and Communication Techniques for Scripps Mercy Aggression Reduction Training) valutato da Cahill (2008) in un campione di convenienza che comprendeva complessivamente 65 infermieri; per gli infermieri che avevano seguito il programma si è infatti riscontrato un miglioramento statisticamente significativo (p=0,001) della capacità di gestire situazioni di aggressione.
Oltre a una formazione mirata degli infermieri, secondo l’analisi di Hodge e Marshall (2007) gli interventi consigliabili comprendono l’uso di tecniche di de-escalation, ma anche il ricorso a misure di contenzione fisica o farmacologica e all’isolamento. Tecniche di disinnesco ed eventuale contenzione fisica e farmacologica svolgono un ruolo cruciale anche nell’approccio interdisciplinare in 3 fasi proposto da Rintoul e collaboratori (2009), che raccomandano inoltre incident reporting e debriefing sistematico.
Le indicazioni fornite dagli studi qui considerati, pubblicati da riviste importanti, come pure dagli altri articoli esaminati, possono essere utilizzate per adottare linee di intervento contro le aggressioni nei servizi di Pronto Soccorso. Tuttavia, nella gerarchia delle prove di efficacia del NHS Center for Reviews and Dissemination le evidenze scientifiche che sostengono tali scelte sono di livello IV, ovvero fondate su opinioni autorevoli basate sull’esperienza clinica o su studi descrittivi e rapporti provenienti da commissioni esperte (Hamer, Collinson, 2002).
DISCUSSIONE
Il National Institute of Occupational Safety and Health (NIOSH, 2002) definisce la violenza sul luogo di lavoro come ogni aggressione fisica, comportamento minaccioso o abuso verbale contro persone che stanno svolgendo la propria attività lavorativa. Tutti i lavoratori ospedalieri sono esposti al rischio di violenza, ma il rischio è più alto per il personale che ha maggiori contatti diretti con i pazienti, e in primo luogo per gli infermieri dei servizi di Pronto Soccorso. Questi atti di violenza si possono ripercuotere negativamente anche sulla qualità dell’assistenza offerta ai pazienti, ed è compito dell’organizzazione sanitaria – inclusi infermieri dirigenti, coordinatori e professionisti – identificare i fattori di rischio per la sicurezza del personale e attuare le opportune strategie preventive, nel nostro come in altri paesi (International Council of Nurses, 2006; OSHA, 2004).
In Italia nonostante la mancanza di documentazione e quindi l’esigenza di indagare sul fenomeno in maniera più sistematica (Becattini et al., 2007; Ministero della Salute, 2007), l’Istituto Superiore per la Prevenzione e Sicurezza del Lavoro, in uno Studio per la predisposizione di linee guida per gli interventi di prevenzione relativi alla sicurezza e all’igiene del lavoro nelle strutture di Pronto Soccorso, tra i rischi principali (da agenti fisici, chimici, biologici, correlati a sforzi muscolari e posture incongrue) prende in considerazione anche i “rischi relativi ad aspetti di natura psico-organizzativa” (ISPESL, 2007). Non da ultimo, il Ministero della Salute (2008) tra gli eventi sentinella prevede espressamente gli atti di “violenza ad operatore all’interno di strutture sanitarie compiuta da pazienti, da loro parenti o accompagnatori e che ha determinato un grave danno”.
CONCLUSIONI
Gli studi analizzati suggeriscono programmi e interventi che possono essere utili per prevenire gli episodi di violenza e/o per ridurne le conseguenze negative. Ma solo l’impegno comune di tutti (direzione aziendale, dirigenza infermieristica e medica, coordinamento infermieristico, professionisti infermieri) può migliorare l’approccio al problema e assicurare un ambiente di lavoro sicuro per gli infermieri di Pronto Soccorso (Gacki-Smith et al., 2010).
Ringraziamenti
Gli autori ringraziano i colleghi infermieri e gli operatori socio sanitari del Pronto Soccorso dell'Azienda Ospedaliera di Perugia, con i quali condividono quotidianamente la loro difficile quanto esaltante esperienza professionale.

Aggressività: la comunicazione assertiva può aiutare?

Introduzione
La volontà di approfondire l’utilizzo della comunicazione assertiva è nata dall’esperienza di tirocinio all’interno del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) dell’ospedale Bassini di Cinisello Balsamo. Il fine di questo stile di comunicazione è di risolvere le situazioni di conflitto permettendo il raggiungimento degli obiettivi di entrambe le parti nel rispetto di quelli altrui senza scatenare reazioni aggressive.
L’aggressività
In letteratura risulta difficile raccogliere dati sull’aggressività nell’ambiente sanitario in quanto essi risulterebbero sottostimati (Ferns, 2006). Ci sono differenze nei sistemi di raccolta dati utilizzati e mancano definizioni univoche di termini come aggressività, abuso e violenza (Who, 2002). La letteratura è concorde sull’effetto positivo dell’utilizzo di strategie preventive di rilevazione dei segnali predittivi dell’aggressività e sull’outcome di situazioni pericolose (Chapman, 2009; Ferns, 2006; Who, 2002). Chapman individua 9 componenti predittive, sintetizzate con l’acronimo Stampedar: Staring (fissare lo sguardo), Tone (tono di voce), Anxiety (ansia), Mumbling (borbottare), Pacing (camminare avanti e indietro), Emotions (emozioni), Disease process (processo patologico), Assertive/non-assertive (presenza/assenza di un comportamento assertivo) e Resources/organization (risorse/organizzazione).
L’assertività
L’assertività è la “capacità di esprimere e argomentare le proprie opinioni in modo sicuro e deciso” (Zanichelli). Buback (2004) ne illustra alcuni atteggiamenti, tra cui:
  • evitare affermazioni che trasmettono insoddisfazione e insicurezza;
  • mantenere una postura eretta ed un buon contatto visivo;
  • fare richieste corte e concise;
  • mostrare il problema.

E alcune tecniche:
  • confronto: informare la persona che il suo comportamento aggressivo è inaccettabile;
  • accordo parziale: riconoscimento di una valida ragione per il sentimento di rabbia manifestato ma diretto verso la causa sbagliata;
  • esposizione: rivelare le proprie emozioni di fronte all’evento;
  • aggiramento/evasione: rispondere in modo neutro ma non difensivo.

L’assertività e il Codice deontologico
Gli infermieri sono spesso esposti ai fattori di rischio di conflitti. Le diversità di opinioni e di emozioni sono difficili da comunicare, inoltre i problemi organizzativi, la mancanza di risorse e le situazioni stressanti si presentano sempre più comunemente.
Il Codice deontologico dell’infermiere suggerisce la via più adatta per affrontare questi ostacoli mantenendo un rapporto di cura efficace:
  • “L’infermiere (…) si impegna a trovare la soluzione attraverso il dialogo...” articolo 8;
  • il dialogo deve essere la prima scelta anche con i colleghi;
  • “L’infermiere collabora con i colleghi e gli altri operatori di cui riconosce e valorizza lo specifico apporto all’interno dell’équipe” articolo 41;
  • “L’infermiere tutela la dignità propria e dei colleghi, attraverso comportamenti ispirati al rispetto e alla solidarietà” articolo 42.

Il dialogo risulta maggiormente efficace se integrato con tecniche di comunicazione assertiva e con l’empatia, cioè la “capacità di immedesimarsi nelle condizioni di un altro e condividerne pensieri ed emozioni” (Zanichelli, 2013).
L’obiettivo dell’approfondimento della letteratura su questo tema è perciò di valutare l’utilizzo della comunicazione assertiva come strumento di prevenzione e trattamento dell’aggressività espressa dalle persone presenti all’interno di realtà sanitarie diverse.
Il percorso di consultazione della letteratura
È stata consultata la letteratura recente seguendo il metodo del P&Pico, come descritto nella tabella 1, che ha permesso di evidenziare diversi articoli che mostrano alcune esperienze relative al fenomeno dell’aggressività e alla comunicazione assertiva.
Tabella 1 - Pico
P
Patient/Population
Persona adulta (≥18 anni)
&P
Problem
Comportamento aggressivo
I
Intervention
Comunicazione assertiva
C
Comparison
/
O
Outcome
Riduzione del numero e dell’entità di eventi aggressivi

L’aggressività è un fenomeno molto diffuso, come risulta evidente dagli articoli selezionati (Tabella 2). In uno studio condotto nel 1994, è risultato che il 94% dei 461 infermieri intervistati ha subìto un abuso in forma verbale (Watson et al., 2002). La maggior parte del personale sanitario è soggetta ad almeno un episodio di violenza sul lavoro durante la propria carriera (Smith-Pittman et al., 1999) e la violenza stessa sta diventando un rischio occupazionale per il personale sanitario (Erickson et al., 2000).
Nelle realtà universitarie, gli studenti di infermieristica tedeschi (Nau et al., 2007) identificano le difficoltà di gestione dell’aggressività nella sua interpretazione e nel suo trattamento, nella mancanza di controllo sulle sue cause, nell’organizzazione e nella gestione dello stress. Invece negli studenti turchi (Unal et al., 2012) è stata trovata una differenza significativa tra il punteggio medio Rathus assertiveness schedule (una scala per l’autovalutazione dell’assertività) (Rathus, 1973) degli studenti che hanno provato o meno stress psicologico durante il tirocinio. È risultato inoltre che il 69,3% degli studenti non risponde alla violenza.
L’uso di un training sull’assertività come mezzo di risoluzione dei conflitti ha dimostrato di diminuire l’incidenza dei maltrattamenti verbali con conseguente miglioramento della soddisfazione lavorativa, dell’autostima e delle doti comunicative, la riduzione del turnover dei membri dello staff e una diminuzione del numero degli errori (Buback, 2004).
I costi e l’uso di servizi sanitari di salute mentale sono stati analizzati attraverso i dati di Medicaid (programma sanitario degli Usa per individui con basso reddito) dal 2000 al 2002 in North Carolina. È stato confrontato un gruppo di individui in Assertive community treatment (Act, approccio altamente integrativo utilizzato in comunità di salute mentale) con due gruppi di controllo con patologie mentali severe (schizofrenia, disordini affettivi, paranoia e psicosi) privi dei servizi Act. L’Act ha ridotto la durata di ricovero e la probabilità di eventi richiedenti un intervento in emergenza (Wiley-Exley et al., 2013).
In South Carolina 171 studenti sono stati valutati attraverso due scale (Galassi et al., 1975):
  • la prima, College self-expression scale, ha misurato le capacità di espressione delle emozioni e di comunicazione;
  • la seconda, Buss-Durkee Inventory (Buss, 1961), ha misurato i livelli di aggressività, ostilità e del complesso aggressività-ostilità.

Nel sesso femminile la scala dell’assertività è in significativa relazione con quella verbale, quella dell’irritabilità e quella del risentimento. Nel maschile esiste una corrispondenza tra bassi livelli di assertività e alti livelli di risentimento e di sospetto. Con l’aumentare dell’assertività, i punteggi di risentimento e sospetto diminuiscono (Figure 1 e 2). Non esiste correlazione tra la scala dell’assertività e quella del complesso aggressività-ostilità (Galassi et al., 1975).

Figura 1
Relazione tra assertività e risentimento
per i maschi (Tratto da Galassi et al., 1975)
Figura 1 - Relazione tra assertività e risentimento per i maschi (Tratto da Galassi et al., 1975)
Figura 2
Relazione tra assertività e sospetto
per i maschi (Tratto da Galassi et al., 1975)
Figura 2 - Relazione tra assertività e sospetto per i maschi (Tratto da Galassi et al., 1975)

La letteratura non è concorde sull’utilità di un corso di aggression management: alcuni ricercatori suggeriscono che non abbia effetto (Hahn et al., 2006; Needham et al., 2005; Lee, 2001), mentre altri rilevano dati positivi nel caso che il corso sia inserito in un contesto di assertive training (Lin et al., 2004; Weinhardt et al., 1998). Il più recente di questi studi (Oostrom et al., 2008) ha fornito ai 42 partecipanti:
  1. la capacità di riconoscere comportamenti assertivi, aggressivi e violenti;
  2. la capacità di interagire con persone aggressive e le conoscenze degli effetti su di esse di diverse modalità di interazione;
  3. le tecniche e le abilità di prevenzione di eventi pericolosi.

Attraverso due scale sono stati misurati il punto 1 (scala A) e le abilità di affrontare condizioni avverse, sintesi dei punti 2 e 3 (scala B), in tre tempi diversi: prima del training (T1), subito dopo (T2) e dopo 5 settimane (T3). I risultati delle scale A e B, illustrati nella Figura 3, hanno mostrato un miglioramento considerevole rispetto alla variabile di controllo (team functioning, C nel grafico).
 Figura 3 -  Misurazioni delle variabili A e B e della variabile di controllo /
(Tratto da Oostrom & van Mierlo, 2008)
Figura 3 -  Misurazioni delle variabili A e B e della variabile di controllo / (Tratto da Oostrom & van Mierlo, 2008)
 
Aggressività e comunicazione assertiva, parliamone
Adottare un comportamento assertivo nella pratica quotidiana all’interno delle diverse realtà operative sembrerebbe quindi permettere di ridurre gli eventi aggressivi e lo stress lavorativo, nonché di conseguenza, migliorare il grado di soddisfazione del personale. L’infermiere che adotta un comportamento assertivo non si trova più da solo ad affrontare le difficoltà fisiche, psicologiche ed emotive dettate dal misurarsi quotidianamente con situazioni di sofferenza e dai ritmi incalzanti dell’attività assistenziale. Adottando un comportamento assertivo riesce a confrontarsi efficacemente con le persone che ha di fronte permettendo a tutte le parti di percepire il rispetto reciproco e di raggiungere i propri obiettivi considerando la soggettività delle persone coinvolte.
Un importante vantaggio relativo all’assertività, riguarda anche la questione economica: per Wiley-Exley (2013) l’Assertive community treatment può rappresentare una riduzione dei costi in quanto è associato ad una riduzione della spesa sanitaria ottenuta grazie alla diminuzione degli accessi ai servizi di emergenza e di ricovero a lungo termine a fronte di un aumento dei servizi che utilizzano l’Act.
L’analisi costi-benefici di Buback (2004) in sala operatoria ha stimato una spesa relativa all’abuso verbale di $ 64,900 all’anno.
Si sottolinea la possibilità di una riduzione delle spese derivanti direttamente e indirettamente dagli eventi aggressivi mediante una limitazione degli stessi, da valutare una volta approfondita la relazione costi-benefici dei corsi di formazione assertiva.
Rimane il problema: come facilitare l’applicazione o, meglio, l’uso della comunicazione assertiva da parte degli operatori al fine di prevenire o contenere gli atteggiamenti aggressivi? La formazione a riguardo sembrerebbe una strategia fondamentale.
Il Codice deontologico afferma che “L’infermiere riconosce la salute come bene fondamentale della persona e interesse della collettività e si impegna a tutelarla con attività di prevenzione, cura, riabilitazione e palliazione” (articolo 6).
Rilevata la mancanza di un gold standard, la prevenzione dell’aggressività tramite corsi di formazione di comunicazione assertiva risulta essere un metodo efficace per ridurre il numero e l’entità degli episodi aggressivi. Data la precoce manifestazione degli eventi aggressivi (Unal et al., 2012), questi insegnamenti dovrebbero essere inseriti nella realtà universitaria attraverso una combinazione di attività pratiche e lezioni teoriche, con l’obiettivo di fornire buone capacità comunicative, empatiche, di ascolto, di espressione, di ottenere un feedback, di problem solving e di de-escalation (ridimensionamento della tensione) preparando gli infermieri ad affrontare queste situazioni senza l’ausilio di strumenti particolari.
Analizzate le diverse indicazioni che la letteratura reperita fornisce come basi della formazione assertiva, si individua tuttavia la necessità di altri studi per determinare i migliori outcomes d’apprendimento e per identificare tutti i contenuti fondamentali per la costruzione di un percorso di formazione assertiva efficace.
Durante questo percorso sono emerse alcune scale di misurazione dell’assertività (in particolare la “Rathus assertiveness schedule”) e dell’aggressività. Sarebbe interessante per il futuro, verificare l’attendibilità anche in Italia di questi strumenti e utilizzare gli stessi per misurare i livelli di assertività e aggressività degli infermieri italiani, specie in alcuni contesti a più elevato rischio di conflitto. Tali strumenti potrebbero, ad esempio, permettere la descrizione della realtà di partenza dei soggetti coinvolti in percorsi di formazione ad hoc e monitorarne la loro efficacia.
Tabella 2
Documento selezionato
(Autore/i, Anno)
Obiettivo dello studio
Destinatari dello studio (descrizione e numerosità della popolazione)
Risultati dello studio
Buback D (2004)
  1. Identificare le dimensioni dell'abuso verbale
  2. Spiegare come gli episodi di abuso verbale si siano evoluti storicamente nel setting perioperatorio
  3. Descrivere gli effetti dell'abuso verbale
  4. Trattare gli interventi utilizzabili per prevenire e gestire l'abuso verbale
461 infermieri di sala e due case studies
Il 94% di infermieri ha avuto esperienze di abuso verbale nell'ambito perioperatorio, che hanno ridotto la soddisfazione lavorativa ed aumentato il turnover e il numero di errori. L'uso del training assertivo come componente della risoluzione dei conflitti ha diminuito l'incidenza dell'abuso verbale con conseguenti miglioramenti nella soddisfazione del lavoro e riduzione del turnover del personale e di errori
Unal S, Hisar F, Görgülü U (2012)
Analizzare le esperienze di violenza verbale e di stress psicologico degli studenti di infermieristica durante il tirocinio pratico, gli effetti dell'assertività sugli stessi soggetti a violenza e il loro comportamento dopo l'episodio
274 studenti (età media 20.43, 89.4% femmine e 10.6% maschi) in 4 anni
  1. Gli studenti che hanno provato stress psicologico durante il tirocinio hanno punteggi più alti della Ras (Rathus assertiveness schedule, 7.89 ± 8.95 contro l'1.83 ± 8.41 di chi non l'ha provato)
  2. Il 69.3% che ha subito violenza verbale non ha risposto alla violenza
  3. Gli studenti con un livello più alto di assertività sono soggetti a violenza più frequentemente
  4. Essere soggetti a violenza è il problema maggiore degli studenti durante il tirocinio pratico
  5. Gli studenti dovrebbero essere supportati efficacemente in termini di assertività e di capacità di affrontare episodi di violenza
Wiley-Exley E, Domino ME et al. (2013)
Analizzare il rendimento degli investimenti nell'Act nelle strutture sanitarie di base e in quelle ambulatoriali
Sono stati analizzati modelli di costo e di uso dei servizi sanitari di base e di salute mentale da Medicaid tra il 2000 e il 2002 in North Carolina. Sono stati confrontati individui in Act (n = 1,065) con due gruppi di controllo con patologie psichiatriche severe non in Act (n = 1,426 e n = 41,717)
L'utilizzo dell'Act è associato ad una riduzione della spesa sanitaria ottenuta grazie alla diminuzione degli accessi ai servizi di emergenza e di ricovero a lungo termine a fronte di un aumento dei servizi che utilizzano l’Act
Chapman R, Perry L et Al (2009)
Descrivere i fattori predittivi di episodi di violenza sul lavoro elaborati dagli infermieri di diverse aree ospedaliere
322 infermieri, per la maggior parte donne, delle seguenti aree: medica, chirurgica, materno-infantile, A&E (Accident and Emergency), rivolte alla cura degli anziani e di salute mentale
Sono state individuate 9 componenti predittive: Staring (fissare lo sguardo), Tone (tono di voce), Anxiety (ansia), Mumbling (borbottare), Pacing (camminare avanti e indietro), Emotions (emozioni), Disease process (processo patologico), Assertive/non-assertive (presenza/assenza di un comportamento assertivo) e Resources/organization (risorse/organizzazione)
Oostrom JK, van Mierlo H. (2008)
Valutare l'efficacia di un programma di formazione di aggression management
42 partecipanti: 11 assistenti domiciliari, 15 lavoratrici domiciliari, 7 infermiere e 9 lavoratrici a domicilio per i neonati e gli infanti
Dopo aver fornito ai 42 partecipanti:
  1. la capacità di riconoscere comportamenti assertivi, aggressivi e violenti
  2. la capacità di interagire con persone aggressive e le conoscenze degli effetti su di esse di diverse modalità di interazione le tecniche e le abilità di prevenzione di eventi pericolosi
  3. le tecniche di abilità e di prevenzione di eventi pericolosi

Attraverso due scale sono stati misurati il punto 1 e le abilità di affrontare condizioni avverse, sintesi dei punti 2 e 3, in tre tempi diversi: prima del training (T1), subito dopo (T2) e dopo 5 settimane (T3) mostrando un miglioramento considerevole
Galassi JP, Galassi MD (1975)
Validare maggiormente la “College self-expression scale” (Galassi, DeLo, Galassi, & Bastien, 1974) come strumento di misurazione dell'assertività relazionandola con la “Buss-Durkee inventory” (Buss, 1961) strumento per la misurazione dell'aggressività
100 studentesse e 71 studenti
La relazione lineare dei dati raccolti mostra che:
  • i risultati non indicano una forte correlazione tra tutte le misure;
  • le scale dell’irritabilità e del risentimento nelle studentesse sono inversamente correlate alla scala dell’assertività
  • i risultati di risentimento e sospetto negli studenti, mostrano una corrispondenza tra bassi livelli di assertività e alti livelli di risentimento e di sospetto. Con l’aumentare dell’assertività, i punteggi di risentimento e sospetto diminuiscono. Quando aumenta oltre il punto di flesso (140) si ha un lieve aumento dei livelli di risentimento e sospetto
  • per entrambi i sessi manca una correlazione tra le scala dell’assertività e quella del complesso aggressività-ostilità
Ferns T (2006)
Esaminare i fattori che non permettono agli infermieri di segnalare gli episodi di violenza e di aggressività nell'area sanitaria

I dati sono sottostimati a causa di fattori legati a:
  • educazione
  • sesso e socializzazione
  • esperienze personali, autostima e percezione di se stessi
  • contesto sociale e dinamiche di potere

Non tutte le informazioni vengono segnalate alle autorità competenti, mentre altre vengono segnalate prive di particolari rilevanti per comprendere a fondo il problema. Ci sono differenze nei sistemi di raccolta dati utilizzati e mancano definizioni univoche di termini come aggressività, abuso e violenza. La letteratura è concorde sull'effetto positivo dell'utilizzo di strategie preventive di rilevazione dei segnali predittivi dell'aggressività, sull'outcome di situazioni pericolose
Nau J, Dassen T, Halfens R, Needham I (2007)
Scoprire le percezioni degli studenti nell'affrontare una persona aggressiva e a cosa attribuiscono la causa dell'aggressività
12 studenti di Berlino
Gli studenti attribuiscono le difficoltà di gestione dell’aggressività alla mancanza di controllo sulle sue cause, nell'interpretazione e nel trattamento della stessa e nella gestione dello stress e dell'organizzazione, non rilevando invece nessi causali particolari tra le realtà di salute mentale e gli eventi aggressivi