Focus sullo shock cardiogeno al 50° Convegno CARDIOLOGIA 2016.
Anche quest’anno si è svolto a Milano l’ormai tradizionale Convegno di Cardiologia organizzato dal De Gasperis Cardio Center dell’Ospedale Niguarda. Quest’ultima non è stata una edizione qualsiasi: è stato, infatti, festeggiato il 50° anniversario del Corso in presenza di uno dei padri fondatori, il professor Fausto Rovelli.Come sempre, il programma è stato vasto e variegato. Tra le sessioni plenarie, ampio spazio è stato dedicato allo shock cardiogeno, argomento che coinvolge direttamente il cardiologo clinico/intensivista, il cardiologo interventista, l’anestesista ed il cardiochirurgo. Queste sono state, infatti, le figure intervenute nell’interessante dibattitto.
Lo shock cardiogeno, condizione di severa ipoperfusione tissutale causata dall’incapacità del cuore a mantenere una adeguata gittata, rappresenta ancora oggi una condizione ad altissima mortalità ospedaliera (casistiche la riportano tra il 40 e il 70%). Cardine del trattamento dello shock è sicuramente la sua diagnosi clinica precoce, il rapido inquadramento eziologico e, di conseguenza, l’immediata terapia non solo causale ma anche di supporto. Fondamentale è, inoltre, il monitoraggio clinico-emodinamico-laboratoristico, come ha elegantemente esposto Maurizio Bottiroli, rianimatore del servizio di Cardioanestesia dell’Ospedale Niguarda. Esami obbligatori e di facilissimo impiego, come l’ECG e l’ecocardiogramma, rappresentano i primi step della diagnosi eziologica ed indirizzano, quindi, verso la terapia mirata. Tra i parametri emodinamici, il più semplice e di immediata interpretazione è sicuramente il monitoraggio invasivo della pressione arteriosa. Oltre ai vari parametri laboratoristici in grado di valutare il danno multiorgano, che rappresenta l’inesorabile cascata dello shock, di particolare rilevanza appare il monitoraggio dei lattati, espressione diretta dell’ipoperfusione tissutale. I lattati hanno un ruolo chiave non solo nella diagnosi e nel monitoraggio del danno del microcircolo ma rappresentano anche un importante parametro prognostico ed un loro efficace washout è un indice di risposta alla terapia.
Il trattamento farmacologico dello shock cardiogeno è stato, invece, presentato da Alice Sacco, cardiologo intensivista della Cardiologia 1-UTIC dell’Ospedale Niguarda. La Collega ha approfondito l’annosa questione della scelta degli inotropi, vasocostrittori e inodilatatori. Queste incertezze sono state, inoltre, evidenziate in una recente review della Cochrane sullo shock cardiogeno in corso di infarto miocardico. Non esistono robusti dati sull’utilizzo di un inotropo piuttosto che un altro (dobutamina, dopamina, inibitori delle PDEIII o levosimendan) e viene solitamente citata la noradrenalina come vasocostrittore di scelta, come dimostrato anche dalla recenti Linee Guida ESC sullo scompenso cardiaco (livello di raccomandazione IIb, evidenza B e C) e confermato sia dalle linee guida austro-tedesche sullo shock secondario ad infarto miocardico che dalle linee guida americane sullo scompenso cardiaco. Un grande assente dalle linee guida sembra in realtà l’adrenalina: farmaco, invece, di scelta nel trattamento dello shock cardiogeno nell’UTIC dell’ospedale Niguarda. Un gruppo di ricera dello stesso centro ha portato avanti uno studio pilota che ha mostrato la validità dell’adrenalina a basso dosaggio nello shock cardiogeno e, per validare questa teoria, è attualmente in corso uno studio multicentrico di fase II, l’ALTShock trial (Study of Multistep Pharmacological and Invasive Management for cardiogenic Shock).
L’argomento della rivascolarizzazione precoce in corso di sindrome coronarica acuta complicata da shock cardiogeno è stato affrontato da Giuseppe Tarantini, emodinamista dell’Università di Padova. Buona parte delle evidenze in questo contesto derivano dallo SHOCK trial (Should We Emergently RevascularizeOccluded Coronaries for Cardiogenic Shock)che ha dimostrato come la rivascolarizzazione in emergenza con angioplastica o by-pass migliori la sopravvivenza a lungo termine quando confrontata con la terapia medica intensiva (contropulsazione aortica/trombolisi). Analisi successive dello stesso studio hanno dimostrato come, nonostante i pazienti trattati con rivascolarizzazione chirurgica avessero una più grave patologia coronarica e una maggiore prevalenza di diabete rispetto a quelli sottoposti a trattamento percutaneo, la mortalità fosse simile nei due gruppi di trattamento. Bisogna però ricordare che lo SHOCK trial è uno studio ormai datato e fuori dalla nostra realtà quotidiana: era quella, infatti, un’epoca in cui le angioplastiche erano eseguite con solo pallone o con stent metallici. L’efficacia della contropulsazione aortica nello shock cardiogeno è stata messa in discussione dal trial IABP-SHOCK II (Intraaortic Balloon Pump in Cardiogenic Shock) che ha arruolato pazienti con shock cardiogeno dovuto ad infarto miocardico e li ha randomizzati in due gruppi (contropulsati vs non contropulsati). La mortalità a 30 giorni non è stata ridotta dall’uso del contropulsatore aortico per cui, attualmente, l’utilizzo di questo supporto percutaneo al circolo non è più routinariamente raccomandato ma rimane un sostegno per il paziente con complicanze meccaniche o come bridge per la chirurgia. Nel corso degli ultimi anni, invece, è stato validato l’uso di altri supporti percutanei al circolo in corso di shock cardiogeno durante infarto miocardico. Come dimostrato nell’USpella registry, registro americano che ha valutato l’utilizzo dell’Impella 2.5, i pazienti che vengono supportati prima dell’inizio della procedura di angioplastica hanno outcome migliori rispetto a quelli in cui l’assistenza meccanica viene posizionata dopo la rivascolarizzazione. Ovviamente, step più avanzati di trattametno allo shock refrattario sono rappresentati da assistenze più complesse come, ad esempio, l’ECMO (Ossigenazione Extracorporea a Membrana) e i VAD (Dispositivo di Assistenza Ventricolare). Una applicazione dell’ECMO, non particolarmente diffusa ma certamente di importante impatto, è rappresentata dal suo impiego come “bridge” per il trasporto del paziente in shock dai centri spoke agli hub. Ha approfondito l’argomento Francesco Formica dell’Ospedale S. Gerardo di Monza che, da anni, lavora con un vero e proprio ECMO team, prelevando i pazienti nei centri periferici e trasportandoli in maniera protetta al centro di riferimento. Il trasferimento del paziente critico verso un centro di III livello in supporto extracorporeo, non incrementa la mortalità in maniera significativa (al di là del già alto rischio associato all’ECMO) e, quando i pazienti sono appropriatamente selezionati, permette una chance di trattamento avanzato altrimenti impossibile. In conclusione, lo shock cardiogeno rimane, nonostante i progressi della medicina, una condizione di estrema emergenza ad elevatissima mortalità, in cui bisogna intervenire efficacemente e rapidamente perchè, come ci ha insegnato R. Adams Cowley (pioniere della medicina d’urgenza), “there is a golden hour between life and death”.
Irene Di Matteo
U.O.C. Cardiologia 1 – Emodinamica
Cardio Center De Gasperis
ASST Grande Ospedale
Metropolitano Niguarda
Milano
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