mercoledì 8 febbraio 2017

Infermiere di processo, innovazione organizzativa al pronto soccorso

nfermiere flussista, anzi no, di processo. Un professionista esperto che prende in carico i pazienti in PS in modo globale e competente. Gestisce il percorso dal triage alle sale di attesa estendendo il suo intervento fino alle aree di cura.

Infermiere di processo, l'esperienza bolognese


Non poco tempo fa sui social ci sono state alcune riflessioni dopo che un quotidiano è uscito con il titolo “Bologna. Pronto Soccorso Ospedale maggiore Arriva l’infermiere flussista” alla luce di alcune dichiarazione del Direttore Sanitario del Maggiore Andrea Longanesi, creando in alcuni domande sulla funzione e lo specifico ruolo di questo professionista.
Da alcuni anni presso il Pronto Soccorso generale del Policlinico S. Orsola-Malpighi di Bologna alcuni infermieri hanno sperimentato, in accordo con la Direzione Aziendale e lo staff infermieristico, alcune modalità operative al fine di favorire il “flusso” e il processo di gestione dei pazienti afferenti al pronto soccorso.
Questa particolare figura infermieristica, secondo anche alcuni obiettivi stabiliti di concerto con la direzione sanitaria, è un esperto in grado di orientare e dirigere il flusso dei pazienti, ma soprattutto nel prendere in carico la complessità assistenziale in tutto il percorso del paziente dall’ingresso, all’attesa fino alla dimissione garantendo un monitoraggio e un controllo competente e specifico.
Gianni Vitale e Sauro Canovi sono infermieri esperti ed hanno partecipato al X° congresso nazionale SIMEU a Napoli dove hanno esposto una relazione sulle competenze avanzate degli infermieri di processo in pronto soccorso. A loro abbiamo chiesto chiarimenti.
Di cosa vi occupate e qual è lo specifico ruolo dell’infermiere “flussista”?
Innanzitutto ritengo fondamentale, prima di specificarne il ruolo, ribadire la definizione di questo Infermiere da molti, ed in altre realtà chiamato flussista. Nel PS OSO dal 6 aprile 2013 opera, secondo disposizioni del Direttore dell’Unità Operativa, una figura infermieristica innovativa definita infermiere di processo e non flussista. Riteniamo importante questa precisazione, perché non si tratta né di un dirigente del traffico né, tantomeno, di un controllore. Dovendo definire l’Infermiere di Processo direi che è una sorta di “torre di controllo” che, agendo dal triage alle sale di attesa, estende il sue intervento fino alle aree di cura. Ciò gli consente di assegnare i pazienti a quell’area di trattamento che, per intensità di cure, risulta più appropriata alle loro condizioni cliniche, in base alla situazione interna del PS.
È un infermiere che mantenendo un feedback continuo con le aree di assistenza assegna il paziente a quell’équipe che è in grado di farsi carico della persona, coi suoi problemi, in quel determinato momento. Con gli obiettivi di intercettare i casi urgenti e di individuare gli outlier, per governare in sicurezza l’attesa.
Qual è stato il vostro iter formativo?
Come lei affermava, innanzitutto si tratta di un Infermiere Esperto. Questo Infermiere possiede un master in coordinamento infermieristico e segue il protocollo prestabilito dal dirigente del servizio. Coniuga competenze e capacità per poi trasformarle in un’attività. Ma ciò che conta è la condivisione del “modus agendi” con tutti i protagonisti coinvolti nell’assistenza.
Per quanto riguarda la formazione “avuta” diciamo che si è formata sul campo. Abbiamo sempre cercato di coniugare le nostre competenze di Infermiere Esperto e master in coordinamento con le risultanze di un altro requisito fondamentale che questa figura infermieristica deve possedere e da cui non può prescindere: la capacità di mettersi in gioco, che tradotta in parole povere, significa: ascoltare e tenere in considerazione le esigenze di tutti gli attori, a partire dai pazienti ed i loro caregiver, i colleghi, considerare le preziose informazioni e suggerimenti degli OSS senza prescindere dalle fondamentali osservazioni e richieste dei medici.
Ora, data l’esperienza vissuta noi “battistrada”, saremmo certamente in grado di seguire quella formazione a cui non siamo mai riusciti a dedicarci perché, causa carenza di risorse, siamo sempre stati dedicati e immersi nell’attività quotidiana.
Ci sono studi e/o ricerche su ruolo e modalità organizzative specifiche di questa funzione?
Anche in questo caso una premessa è fondamentale. Nel 2010 il nostro PS subì importanti cambiamenti strutturali e concettuali. Il Pronto Soccorso venne rinnovato e suddiviso per diversità di aree di trattamento (maggiore e minore intensità).
Questi cambiamenti concettuali e strutturali evidenziarono numerose criticità per cui nel 2011 ci pervenne la richiesta della direzione di effettuare un’analisi sistemica al fine di introdurre un nuovo modello organizzativo.
Tutto il personale, a partire dagli OSS, partecipò con entusiasmo ad un’analisi organizzativa che poi avrebbe portato all’approvazione di un progetto di miglioramento che prevedeva l’introduzione di una figura infermieristica innovativa: l’Infermiere di Processo. Fatta questa premessa, dovuta ma necessaria per evidenziare la partecipazione di tutto il gruppo dei professionisti partecipanti all’assistenza nel PS, le dico che esistono studi e lavori sul ruolo e modalità organizzative specifiche di questa funzione che sono stati presentati e depositati al SIMEU 2016.
Come avete reagito a certi colleghi che vi hanno paragonato a dei “vigili”?
Sinceramente crediamo che coloro che ci hanno paragonato a dei vigili non siano a conoscenza del nostro “modus agendi”. Ma ciò che soprattutto ci ferisce è che certe asserzioni possano favorire nel “laico” l’insorgenza di domande inquietanti e fuorvianti sulla funzione e sullo specifico ruolo di questo professionista.
Per cui, senza nulla togliere agli “agenti di un corpo speciale di guardia municipale che hanno il compito di regolare il traffico urbano e di vigilare sulla corretta applicazione delle norme comunali“ e che hanno come strumenti libretto, multe e fischietto, diciamo che l’Infermiere di Processo agisce secondo un modello concettuale che considera lo stato di salute della persona e la sua criticità clinica. Che ne considera la complessità assistenziale e che si avvale di strumenti quali le tabelle della “criticità clinica” e “capacità di collaborazione della persona stessa”.
Come controllate la sicurezza e come regolate il flusso?
Per quanto riguarda il controllo dell’attesa noi Infermieri di Processo garantiamo e promuoviamo la rivalutazione, perché la reputiamo un momento basilare per governare in sicurezza l’attesa. Crediamo sia un momento fondamentale cui attribuiamo un valore aggiunto di “utilizzo attivo dei tempi di attesa”, perché consente di rassicurare il paziente che attende la visita medica, fondamentale è il contributo degli OSS che in questa fase trasmettono alle persone la percezione di una presa in carico continuativa.
Per quanto riguarda la regolazione del flusso, come già detto precedentemente, agiamo secondo un modello concettuale e strumenti che ci permettono, nell’ambito di ogni categoria di codice colore, di andare oltre l’ordine cronologico di arrivo in PS.
Superare l’ordine cronologico di arrivo?
Ogni paziente, dopo essere stato classificato con un codice colore dal triagista, viene distinto da noi secondo gli strumenti descritti precedentemente: le tabelle della “criticità clinica” , “capacità di collaborazione della persona stessa”, “la fragilita” e la “tempo dipendenza”. È in base a questa analisi che, pur restando nella categoria di codice colore pertinente, si ottengono ulteriori priorità.
Questo significa che, ad esempio, i codici verdi non sono tutti uguali?
Certamente sì. Vede in PS, ci sono dei “motivi di arrivo” che risultano vincolanti nell’assegnazione del codice colore (ad esempio un dolore toracico e addominale non possono mai essere verdi). L’infermiere di processo nell’assegnare i pazienti non considera l’ordine cronologico, perché non tutte le persone sono uguali. Sostituisce la propria competenza e professionalità alla cronologia o se vogliamo al caso o più semplicemente all’ordine di arrivo. Vada in una sala di attesa e osservi (noi valutiamo) le persone in attesa giunte per lo stesso motivo e cui è stato assegnato lo stesso codice di gravità, ebbene non ne troverà una uguale all’altra così come osservando un cielo nuvoloso non troverà una nuvola uguale all’altra.
Quindi avete trovato la soluzione all’overcrowding?
Assolutamente no! Questa non è la soluzione a tutti problemi, ma è rivolta ad una corretta presa in carico della persona e dei suoi problemi. Si sa che il miglioramento (i dati lo dimostrano) non è solo dato dalle competenze e dall’inserimento di una figura, ma è influenzato dal contesto e dalle politiche di ogni singola organizzazione e dalle risorse disponibili.
Crediamo comunque che tutti gli operatori vadano sostenuti e incoraggiati, coltivati e supportati; anche in questo consiste l’impegno quotidiano dell’infermiere di processo, con l’obiettivo di mettere al centro dell’assistenza l’uomo, sia esso paziente o operatore - infermiere o medico - affinché si possa realizzare il necessario dinamismo organizzativo ed intellettuale che permette di favorire la crescita professionale di chi, ogni giorno, opera in pronto soccorso. Un altro obiettivo è la costruzione di un gruppo che sia fortemente connotato dalla volontà di creare un lavoro di squadra per realizzare sinergie tra le persone, integrarne le competenze e ottenere dei risultati che non siano la semplice sommatoria dei risultati ottenibili dai singoli, ma molto di più.

“C’È UN’ORA D’ORO TRA LA VITA E LA MORTE”

Focus sullo shock cardiogeno al 50° Convegno CARDIOLOGIA 2016.

Anche quest’anno si è svolto a Milano l’ormai tradizionale Convegno di Cardiologia organizzato dal De Gasperis Cardio Center dell’Ospedale Niguarda. Quest’ultima non è stata una edizione qualsiasi: è stato, infatti, festeggiato il 50° anniversario del Corso in presenza di uno dei padri fondatori, il professor Fausto Rovelli.
Come sempre, il programma è stato vasto e variegato. Tra le sessioni plenarie, ampio spazio è stato dedicato allo shock cardiogeno, argomento che coinvolge direttamente il cardiologo clinico/intensivista, il cardiologo interventista, l’anestesista ed il cardiochirurgo. Queste sono state, infatti, le figure intervenute nell’interessante dibattitto.
Lo shock cardiogeno, condizione di severa ipoperfusione tissutale causata dall’incapacità del cuore a mantenere una adeguata gittata, rappresenta ancora oggi una condizione ad altissima mortalità ospedaliera (casistiche la riportano tra il 40 e il 70%). Cardine del trattamento dello shock è sicuramente la sua diagnosi clinica precoce, il rapido inquadramento eziologico e, di conseguenza, l’immediata terapia non solo causale ma anche di supporto. Fondamentale è, inoltre, il monitoraggio clinico-emodinamico-laboratoristico, come ha elegantemente esposto Maurizio Bottiroli, rianimatore del servizio di Cardioanestesia dell’Ospedale Niguarda. Esami obbligatori e di facilissimo impiego, come l’ECG e l’ecocardiogramma, rappresentano i primi step della diagnosi eziologica ed indirizzano, quindi, verso la terapia mirata. Tra i parametri emodinamici, il più semplice e di immediata interpretazione è sicuramente il monitoraggio invasivo della pressione arteriosa. Oltre ai vari parametri laboratoristici in grado di valutare il danno multiorgano, che rappresenta l’inesorabile cascata dello shock, di particolare rilevanza appare il monitoraggio dei lattati, espressione diretta dell’ipoperfusione tissutale. I lattati hanno un ruolo chiave non solo nella diagnosi e nel monitoraggio del danno del microcircolo ma rappresentano anche un importante parametro prognostico ed un loro efficace washout è un indice di risposta alla terapia.
Il trattamento farmacologico dello shock cardiogeno è stato, invece, presentato da Alice Sacco, cardiologo intensivista della Cardiologia 1-UTIC dell’Ospedale Niguarda. La Collega ha approfondito l’annosa questione della scelta degli inotropi, vasocostrittori e inodilatatori. Queste incertezze sono state, inoltre, evidenziate in una recente review della Cochrane sullo shock cardiogeno in corso di infarto miocardico. Non esistono robusti dati sull’utilizzo di un inotropo piuttosto che un altro (dobutamina, dopamina, inibitori delle PDEIII o levosimendan) e viene solitamente citata la noradrenalina come vasocostrittore di scelta, come dimostrato anche dalla recenti Linee Guida ESC sullo scompenso cardiaco (livello di raccomandazione IIb, evidenza B e C) e confermato sia dalle linee guida austro-tedesche sullo shock secondario ad infarto miocardico che dalle linee guida americane sullo scompenso cardiaco. Un grande assente dalle linee guida sembra in realtà l’adrenalina: farmaco, invece, di scelta nel trattamento dello shock cardiogeno nell’UTIC dell’ospedale Niguarda. Un gruppo di ricera dello stesso centro ha portato avanti uno studio pilota che ha mostrato la validità dell’adrenalina a basso dosaggio nello shock cardiogeno e, per validare questa teoria, è attualmente in corso uno studio multicentrico di fase II, l’ALTShock trial (Study of Multistep Pharmacological and Invasive Management for cardiogenic Shock).
L’argomento della rivascolarizzazione precoce in corso di sindrome coronarica acuta complicata da shock cardiogeno è stato affrontato da Giuseppe Tarantini, emodinamista dell’Università di Padova. Buona parte delle evidenze in questo contesto derivano dallo SHOCK trial (Should We Emergently RevascularizeOccluded Coronaries for Cardiogenic Shock)che ha dimostrato come la rivascolarizzazione in emergenza con angioplastica o by-pass migliori la sopravvivenza a lungo termine quando confrontata con la terapia medica intensiva (contropulsazione aortica/trombolisi). Analisi successive dello stesso studio hanno dimostrato come, nonostante i pazienti trattati con rivascolarizzazione chirurgica avessero una più grave patologia coronarica e una maggiore prevalenza di diabete rispetto a quelli sottoposti a trattamento percutaneo, la mortalità fosse simile nei due gruppi di trattamento. Bisogna però ricordare che lo SHOCK trial è uno studio ormai datato e fuori dalla nostra realtà quotidiana: era quella, infatti, un’epoca in cui le angioplastiche erano eseguite con solo pallone o con stent metallici. L’efficacia della contropulsazione aortica nello shock cardiogeno è stata messa in discussione dal trial IABP-SHOCK II (Intraaortic Balloon Pump in Cardiogenic Shock) che ha arruolato pazienti con shock cardiogeno dovuto ad infarto miocardico e li ha randomizzati in due gruppi (contropulsati vs non contropulsati). La mortalità a 30 giorni non è stata ridotta dall’uso del contropulsatore aortico per cui, attualmente, l’utilizzo di questo supporto percutaneo al circolo non è più routinariamente raccomandato ma rimane un sostegno per il paziente con complicanze meccaniche o come bridge per la chirurgia. Nel corso degli ultimi anni, invece, è stato validato l’uso di altri supporti percutanei al circolo in corso di shock cardiogeno durante infarto miocardico. Come dimostrato nell’USpella registry, registro americano che ha valutato l’utilizzo dell’Impella 2.5, i pazienti che vengono supportati prima dell’inizio della procedura di angioplastica hanno outcome migliori rispetto a quelli in cui l’assistenza meccanica viene posizionata dopo la rivascolarizzazione. Ovviamente, step più avanzati di trattametno allo shock refrattario sono rappresentati da assistenze più complesse come, ad esempio, l’ECMO (Ossigenazione Extracorporea a Membrana) e i VAD (Dispositivo di Assistenza Ventricolare). Una applicazione dell’ECMO, non particolarmente diffusa ma certamente di importante impatto, è rappresentata dal suo impiego come “bridge” per il trasporto del paziente in shock dai centri spoke agli hub. Ha approfondito l’argomento Francesco Formica dell’Ospedale S. Gerardo di Monza che, da anni, lavora con un vero e proprio ECMO team, prelevando i pazienti nei centri periferici e trasportandoli in maniera protetta al centro di riferimento. Il trasferimento del paziente critico verso un centro di III livello in supporto extracorporeo, non incrementa la mortalità in maniera significativa (al di là del già alto rischio associato all’ECMO) e, quando i pazienti sono appropriatamente selezionati, permette una chance di trattamento avanzato altrimenti impossibile. In conclusione, lo shock cardiogeno rimane, nonostante i progressi della medicina, una condizione di estrema emergenza ad elevatissima mortalità, in cui bisogna intervenire efficacemente e rapidamente perchè, come ci ha insegnato R. Adams Cowley (pioniere della medicina d’urgenza), “there is a golden hour between life and death”.

Irene Di Matteo
U.O.C. Cardiologia 1 – Emodinamica
Cardio Center De Gasperis
ASST Grande Ospedale
Metropolitano Niguarda
Milano